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di Francesca Mannocchi

La Stampa, 29 gennaio 2023

Baracche per chilometri nel deserto, oggi il campo è il terzo insediamento del Paese. Così la temporanea emergenza del campo profughi è diventata una crisi permanente. “In trent’anni sono nati figli e nipoti, senza cibo né acqua. Qui tutto resta immobile”. C’è una parola che risuona spesso tra le strade di una delle zone più aride del Kenya, suona così: buufis. L’ha coniata chi vive qui per esprimere un dolore, il desiderio pressante di essere altrove, in un futuro impossibile che metta il presente nell’ombra.

Il senso di questa parola si vede meglio dall’alto, volando da Nairobi con un aereo delle Nazioni Unite verso il confine con la Somalia. Dopo centinaia e centinaia di chilometri di deserto, in una zona secca lontana dalle città, dai corsi d’acqua, lontana dall’oceano, cominciano a comparire tende e baracche che si estendono a perdita d’occhio per cinquanta chilometri quadrati finché e tra loro, man mano che l’aereo si avvicina a terra, si vedono le ombre che li abitano, trecentomila persone, per lo più somale, scappate qui in cerca di rifugio.

Il posto del buufis, della nostalgia di un futuro impossibile, è Dadaab, uno dei campi profughi più grandi del mondo, costruito nel 1991 per i somali in fuga dalla guerra civile seguita alla destituzione del presidente Mohamed Siad Barrè e diventato simbolo dei destini soffocati, delle crisi prevedibili e mai previste, della distrazione occidentale. I luoghi come Dadaab nascono, sulla carta, per fornire una “protezione in strutture temporanee e garantire assistenza immediata alle persone costrette a fuggire a causa di guerre, persecuzioni o violenze”, recita così, almeno, la definizione che le Nazioni Unite danno ai campi profughi. Poi capita che le emergenze si trasformino in crisi croniche e di solito, a quel punto, capita che il mondo si distragga, e la temporanea emergenza del campo profughi diventi una crisi permanente, e le persone che avrebbero dovuto essere aiutate a ricostruire le proprie vite diventino dipendenti dagli aiuti umanitari. Così oggi Dadaab, il campo nato per tamponare la fuga dei somali in guerra, è il campo delle tre generazioni: dei padri, dei figli e dei figli dei figli.

“Il campo è l’unica casa che conosciamo” - Jama Muhammad Osman ha 54 anni, quando è scappato dalla Somalia ne aveva 22. Era il 1991, era iniziata la guerra civile. Jama Muhammad era sposato, aveva un figlio e una bottega. Ha abbandonato il lavoro e la casa, ha camminato per giorni con sua moglie e il figlio e ha trovato posto in una delle tende di Dadaab, abbastanza lontano per sentirsi al sicuro, abbastanza vicino per tornare indietro il prima possibile. Ha pensato, come tutti quelli che scappano, che prima o poi sarebbe tornato a casa. Sono passati gli anni, Jama Mohammed a casa non è mai tornato, ha avuto altri quattro figli nati nel campo profughi, che a loro volta hanno avuto figli nati nel campo profughi. Il ricordo peggiore che ha risale a una notte “a metà della permanenza”, quindi quindici anni fa. Una delle figlie più piccole piangeva per la fame, lui non aveva niente e, nell’impotenza, l’unica cosa che poteva fare era rimanere sveglio accanto a lei che piangeva fino all’arrivo della luce del giorno.

Quel ricordo, rimasto vivido nella sua memoria è il segno del tempo che passa a Dadaab, il marchio comune di ogni generazione: la fame. Negli anni la tenda di stracci e rami in cui viveva è diventata una baracca di lamiera ondulata, Jama Muhammed ha imparato a chiamarla casa, per i suoi figli e nipoti, invece, la baracca di lamiera è la sola casa mai conosciuta.

Jama Muhammad dice che i suoi figli nati in esilio non sanno niente della Somalia ma che per lui è persino peggio, perché se tornasse lì, oggi, sarebbe straniero a casa sua. Però resta straniero anche a Dadaab, la terra che lo ha accolto ma poi lo ha confinato a una vita che dipende dagli aiuti umanitari e dalla speranza che le razioni non vengano tagliate come è successo a metà degli anni duemila, quando non c’era da mangiare per tutti e di notte i bambini piangevano per la fame.

Il Kenya ospita più di mezzo milione di rifugiati e richiedenti asilo nei campi profughi di Dadaab e Kakuma da oltre tre decenni, numeri che rendono quella kenyota la più grande popolazione di rifugiati in Africa dopo l’Etiopia. Uno sforzo significativo che nasconde un altro volto: l’approccio del governo di Nairobi è stato dal principio quello del confinamento, spostare i profughi in una zona semi arida, lontana dai centri urbani, un po’ per evitare scontri con la popolazione locale, un po’ per disincentivarli a restare. A questo principio rispondono le regole che vietano a chi vive a Dadaab di entrare e uscire liberamente dal campo, e di costruire un edificio permanente. Il principio è: se non li lasciamo costruire, prima o poi se ne andranno.

Invece i principi si sono scontrati con la realtà che porta il titolo di guerra, terrorismo, siccità e fame, così sono passati trent’anni, le case non sono di mattoni e cemento, non ci sono le fogne né l’acqua, ma le tende hanno lasciato posto alle baracche permanenti e Dadaab è diventata una città, per estensione, la terza del Kenya dopo Nairobi e Mombasa. La comunità somala ha costruito le proprie moschee, le botteghe, le scuole, a Daadab si nasce, e si cresce, si celebrano matrimoni e si seppelliscono i morti, i blocchi di baracche hanno un nome come fossero quartieri, in una grande illusione collettiva che la vita possa essere uguale a quella fuori dal campo, che possa essere una vita normale. Invece non lo è. Se sei nato qui e qui hai sempre vissuto non hai un prima né un dopo, non sei né dentro né fuori, la tua identità, come la tua vita è sospesa.

Chiudere o migliorare? Il dilemma umanitario - Nel 2015, dopo l’attacco terroristico nella vicina città di Garissa, quando al Shabaab uccise 150 persone, per lo più studenti universitari - il governo del Kenya ha minacciato di chiudere il campo, sostenendo che fosse una base di reclutamento e pianificazione di attentati. Minaccia ribadita nel 2019, e poi ancora la scorsa estate. Nel 2015 è partito un programma di rimpatrio volontario, cioè sussidi economici in cambio del ritorno in Somalia, nonostante le critiche delle organizzazioni umanitarie e delle corti internazionali. Secondo il diritto internazionale, infatti, i candidati al rimpatrio devono avere accesso a informazioni “oggettive, pertinenti e neutre” sul rientro. Consapevoli o meno più di 85.000 rifugiati somali hanno provato a tornare a casa nel 2015, ma da mesi stanno tornando indietro, perché la guerra è ancora lì, ha solo preso un’altra forma. È la paura di al Shabaab che si unisce a tre anni di piogge insufficienti, è la siccità che uccide le piante, poi gli animali e poi gli anziani e quando cominciano a morire i bambini le madri si rimettono in cammino.

Fartun Ahmed Mohammed ha 21 anni e sei figli, il primo avuto quando ne aveva tredici. Nata e cresciuta in una famiglia di pastori era arrivata a Dadaab per la prima volta da ragazzina, è cresciuta nel campo e nel campo si è sposata poi ha provato far ritorno in Somalia coi rimpatri “volontari”.

È di nuovo a Dadaab da quattro mesi con tutti i figli perché, dice, al Shabaab combatte contro l’esercito ma la povera gente non sa più chi sono gli uomini di al Shabaab e chi sia l’esercito. Così il campo continua ad allargarsi. Duecento, trecento persone al giorno, dice chi vive qui. Arrivano troppo in fretta per avere i numeri esatti, soprattutto perché il Kenya ha vietato la registrazione di nuovi rifugiati, ma senza registrazione non si ha accesso a servizi e assistenza di base, cioè agli aiuti alimentari. Così la gente aumenta e le organizzazioni umanitarie non sanno se portare cibo per 300 mila o 400 mila o mezzo milione di persone, il risultato è che il campo si espande ma arriva la stessa quantità di cibo, una torta divisa in fette sempre più piccole. Solo tra agosto e novembre 2022 il centro nutrizionale di IRC, International Rescue Committee, ha registrato un aumento del 147% nei casi di malnutrizione acuta grave. Da lontano la crisi del Corno d’Africa che sembrava svanita era solo diventata cronica, anche questa è un’illusione collettiva a cui è seguita una diminuzione preoccupante dei finanziamenti. Una formula che tradotta nelle immagini che restituisce il campo di Dadaab significa una latrina per 100, 150 persone, rubinetti da cui non esce acqua potabile e quando pure esce, dopo ore di coda sotto al sole a 39, 40 gradi, va razionata. Si possono portare via solo quattro, cinque litri al mattino e quattro, cinque litri la sera. Troppo poco per tutto, perciò si beve acqua sporca, da ottobre i casi di colera registrati nella regione sono stati quasi 500, molti dei quali bambini che vivono in una latrina a cielo aperto.

Le crisi prevedibili e mai previste - Dadaab è una lezione non imparata. Racconta di previsioni che è già possibile fare, statistiche che già esistono e che dovrebbero portare la comunità internazionale a muoversi prima che sia troppo tardi. Secondo i dati del World Economic Forum entro il 2050 il cambiamento climatico potrebbe costringere più di 200 milioni di persone a migrare all’interno dei propri Paesi, spingendo fino a 130 milioni di persone in una condizione di povertà e polverizzando decenni di sviluppo. Dadaab racconta anche l’illusione tutta europea della migrazione africana che muove verso Nord, verso l’Europa.

La verità, dati alla mano, è che la maggior parte dei movimenti migratori avviene all’interno del continente africano e che i dati dimostrano che sempre meno rifugiati riescono a tornare a casa dall’esilio. Le previsioni 2023 già mettono la Somalia al primo posto dei Paesi maggiormente a rischio di peggioramento delle crisi umanitarie, vuol dire che i Paesi donatori sanno da tempo che gli effetti delle crisi climatiche, della minaccia del radicalismo, della fame e della scarsità d’acqua peggioreranno.

Eppure le risposte continuano a essere inadeguate e figlie di una vocazione all’azione che sa rispondere solo all’emergenza ma non pianificare interventi che durino nel tempo. Per questo quello a Dadaab è un viaggio che torna sempre al punto di partenza, in cui non sembra mai esserci via d’uscita e dopo trent’anni, dove finisce la lamiera ondulata, segno della presenza di chi abita questo luogo da decenni, iniziano di nuovo le tende fatte di rami e di stracci figlie delle vite in movimento degli sfollati che continuano ad arrivare e ancora continueranno, seguiti dall’eco della parola che dice impossibilità di scegliere il proprio destino, l’eco della parola buufis.