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di Sergio D’Elia*

L’Unità, 22 settembre 2024

Il 5 settembre scorso, la legge della sharia in Kuwait ha conosciuto sia la versione della forca sia quella del perdono. Sei uomini condannati per omicidio sono stati giustiziati dopo due anni di tregua della pena di morte. Lo stesso giorno, invece, una donna kuwaitiana è scampata per un pelo alla forca. Nell’emirato più ricco del Golfo Persico, tutto si lega: la storia antica e quella moderna, il patrimonio archeologico e l’architettura avveniristica, il Corano e il petrolio. Nella capitale, il disegno delle Torri del Kuwait, le tre cisterna d’acqua che svettano nel cuore della città, richiama le classiche volte piastrellate della Grande Moschea. Secondo la Costituzione il sovrano deve essere un discendente della dinastia che ha governato l’emirato a partire dal 1752. In arabo Kuwait significa “piccola fortezza”, s’intende, lungo la costa del Golfo. Una forza basata prima sul commercio di perle e spezie tra India ed Europa, poi sul petrolio estratto e distribuito nel resto del mondo fino alla più periferica stazione di servizio col simbolo della vela.

La forza del Corano, invece, è rimasta immutata, ha segnato il passato e segna il presente dell’Emirato. Quando, nel dicembre scorso, è morto il suo capo, lo sceicco Nawaf al-Ahmad Al-Sabah, prima dell’annuncio, la televisione di stato ha interrotto le trasmissioni per mandare in onda versetti dal Corano. Nel mondo arabo, dove il Corano detta legge anche nel campo dei delitti e delle pene, il moderno non emerge, la giustizia resta ancorata all’antico. Nessuna pietà, chi ha ucciso dev’essere ucciso. Con la spada nella terra dei Saud, sulla forca nella terra degli Al Sabah. E la grazia, quando è concessa, non rientra nel ministero della giustizia. È nel potere assoluto dei parenti della vittima. E ha un costo: la diya, il prezzo del sangue.

Il 5 settembre scorso, la legge della sharia in Kuwait ha conosciuto sia la versione della forca sia quella del perdono. Sei uomini condannati per omicidio sono stati giustiziati dopo due anni di tregua della pena di morte. Tra gli impiccati c’erano due kuwaitiani, tre iraniani e un pakistano. Due degli iraniani erano stati condannati per aver ucciso tre persone a Salwa per rapina, tra cui un membro della famiglia regnante. Alcuni di loro erano nel braccio della morte da ben cinque anni. Fino al 1985, le impiccagioni venivano eseguite in pubblico nella Piazza di Palazzo Naif. La forca era stata probabilmente costruita lì dagli inglesi e aveva una capienza di un solo prigioniero alla volta. Dal 2002, le esecuzioni sono sempre eseguite a Palazzo Naif, ma in forma semi-privata. Dopo l’impiccagione, al pubblico e alla stampa è permesso di vedere i corpi penzolanti nella speranza che si riveli un deterrente.

Sono state costruite nuove forche in acciaio per esecuzioni multiple. Su questa piattaforma raggiungibile tramite una rampa di scale sono stati impiccati i condannati a morte del 5 settembre che non hanno avuto la fortuna di incontrare il perdono delle vittime. Vestiti con una maglietta bianca, una tunica e pantaloni marroni, la testa coperta da un cappuccio nero e le braccia e le gambe legate con cinghie di cuoio, hanno incontrato la morte che indossava una tuta nera e il passamontagna per nascondere la sua identità. Lo stesso giorno, invece, una donna kuwaitiana è scampata per un pelo alla forca. Pochi istanti prima dell’esecuzione, i parenti della vittima l’hanno graziata, accettando il “prezzo del sangue”. Il pubblico ministero ha quindi interrotto la procedura mortale. La donna era stata condannata per l’omicidio premeditato di una sua amica, accoltellata più volte dopo aver fatto insieme colazione a casa sua. Come sono andate le cose l’ha raccontato Bader Al-Mutairi, un difensore delle cause disperate. La donna doveva morire giovedì.

Al suo arrivo all’aeroporto del Cairo, mercoledì sera, Al-Mutairi aveva ricevuto diverse chiamate da persone nella prigione femminile che lo informavano che la donna sarebbe stata giustiziata il giorno dopo. Mentre veniva tenuta in isolamento prima dell’esecuzione, a chiunque le capitava di vedere diceva: “Vi prego, dite a Bader Al-Mutairi di non abbandonarmi”. “Cosa posso fare?”, si è chiesto Bader. “Tutto il mio corpo tremava”. Allora, ha chiamato diversi numeri fino a raggiungere l’avvocato che rappresentava la famiglia della vittima, per chiedere un rinvio dell’esecuzione e per concedere più tempo per trattare sul “prezzo del sangue”.

Durante le precedenti trattative, la famiglia della vittima aveva chiesto 7 milioni di dinari, ma era una somma che la famiglia della donna non poteva permettersi. Dopo diversi tentativi, è stato raggiunto un accordo per un risarcimento di 1 milione di dinari in cambio della rinuncia all’esecuzione della pena. La sera stessa, poche ore prima dell’esecuzione programmata, la madre della vittima si è recata alla prigione centrale e ha formalmente dichiarato il suo perdono. Il destino della donna è stato più felice di quello dei sei uomini impiccati il giorno stesso della sua liberazione. La sua fortuna è stata quella di aver incontrato e conservato il numero di telefono di Bader, il suo angelo custode.