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di Mauro Magatti

Corriere della Sera, 5 settembre 2024

La solitudine: le reti relazionali (famiglia, scuola, sport) sono slabbrate. Noi adulti abbiamo sempre meno tempo per stare con i nostri ragazzi. La mancanza di motivazione è ciò che accomuna gli ultimi due terribili fatti di cronaca che hanno sconvolto l’opinione pubblica. “Non so perché l’ho uccisa”, così avrebbe detto Moussa Sangare agli inquirenti che gli chiedevano conto dell’accoltellamento di Sarah. Mancanza di un perché che ritorna anche nella drammatica vicenda di Riccardo, il diciassettenne milanese che ha sterminato la sua famiglia. I due casi di cronaca rimandano, in condizioni storiche del tutto diverse, alla riflessione di Hannah Arendt sulla “banalità del male”. “Non so perché l’ho fatto” dice che lo stato confusionale in cui si sono ritrovati Moussa e Riccardo era arrivato al punto da aver reso indistinguibile ai loro occhi il bene dal male, la fantasia dalla realtà. Una perdita di senso dentro vite apparentemente normali.

La determinazione del “perché” è compito difficile e pericoloso. Per delle buone ragioni, le nostre società hanno sviluppato una vera e propria allergia nei confronti di tutti i regimi etici che vogliono imporre la loro idea di verità. Il senso della vita, il perché di quello che si fa é prerogativa della singola persona. Di conseguenza, la nostra organizzazione sociale si concentra (per la verità sempre più ossessivamente) sui mezzi: accrescere le possibilità di vita (attraverso l’innovazione tecnologica, la crescita economica, i diritti individuali) è la precondizione per la libera scelta dei propri scopi.

Arrivare a darsi un perché non è però compito facile. Né tanto meno qualcosa che si fa in solitudine. É solo in rapporto ai contesti relazionali, istituzionali e culturali in cui viviamo, alla loro qualità, alla loro capacità di permettere il riconoscimento di quello che siamo che è possibile arrivare a portare a termine quello che è uno dei compiti fondamentali del vivere.

Quello che sappiamo di Moussa Sangare è che aveva cercato la strada del successo nella musica. Una via che ha sfiorato e per un po’ anche accarezzato. Senza riuscirci però. Ritrovandosi poi a gestire la delusione - con la relativa invidia - di conoscere chi il successo invece lo ha ottenuto. Da lì, come lasciano capire i racconti della sorella, Sangare ha cominciato a perdersi: come reggere una vita qualunque, condannata all’anonimato, all’insignificanza? Anche perché la sua famiglia - unico punto di riferimento - non aveva gli strumenti e le risorse per fermare quella deriva che lo ha portato a compiere un omicidio senza perché.

Di Riccardo sappiamo troppo poco. E sarebbe sciacallaggio voler scandagliare la vita di una famiglia come tante. Ci vorrà del tempo per capire la ragioni di quello che è successo. Quello che però sappiamo è che la pandemia di disagio psicologico sta colpendo tanti adolescenti. Le ricerche fatte in questi anni arrivano tutte alla medesima conclusione: l’ambiente digitale da una parte isola, riducendo le esperienze concrete in cui apprendiamo la fatica e la bellezza dello stare con gli altri e del farci accettare per quello che siamo; dall’altra manda in tilt l’immaginario, fino al punto da far sfumare la differenza tra reale e irreale.

In una società iperstimolata e ingabbiata in quello che Byung-chul Han chiama “l’eccesso di positività” - dove tutto, cioè, deve essere perfetto - la sofferenza psichica di tanti ragazzi si sviluppa nel nascondimento della propria interiorità. Anche perché le reti relazionali (famiglia, scuola, sport, ma anche gruppo dei pari) sono sempre più slabbrate. Noi adulti abbiamo sempre meno tempo per stare con i ragazzi.

La mancanza di un perché è una cifra del nostro tempo. E forse non è a caso che, ai margini della nostra società, laddove le condizioni per riuscire a darsi da sé il senso sono più fragili - a partire proprio dai più giovani - il disorientamento esistenziale si trasforma in una precondizione per un male che si nasconde sotto le spoglie di una banalità che lo rende irriconoscibile.

 “Non era stupido: era semplicemente senza idee e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”. Così scrive Hannah Arendt a proposito di Adolf Eichman, il mediocre impiegato che partecipò al genocidio per obbedienza burocratica ai comandi ricevuti. Oggi, nel caos della società contemporanea, la banalità del male ritorna per effetto della confusione che, nell’assenza di ogni perché, arriva fino a non far capire più cosa vuol dire uccidere. Come balene spiaggiate, persi in un’esperienza surrealista, si può arrivare a colpire chi è accanto: un passante casuale o le persone più care.