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di Stefano Cappellini

La Repubblica, 4 febbraio 2023

La differenza tra una battaglia per lo Stato di diritto e una pericolosa e ambigua campagna che dipinge l’anarchico come un prigioniero politico. Nel dibattito su Cospito c’è una prima fondamentale discriminante: quelli che lo chiamano Cospito e quelli che lo chiamano Alfredo. I primi sono interessati a dirimere la questione se sia o no giusta l’applicazione del regime carcerario 41 bis rispetto alla sua personale vicenda giudiziaria e se sia o no doveroso che lo Stato impedisca la morte di un detenuto in prolungato sciopero della fame, anche se è quasi incredibile dover constatare che in quest’ultimo caso possa esserci qualcuno che sostiene che sì, Cospito muoia pure se crede, perché, come dice uno non a caso, l’ex pm Piercamillo Davigo, “per lo Stato viene prima il rispetto delle regole”.

Ma è dei secondi che vorrei parlare qui, e non di quelle poche decine di anarchici cosiddetti insurrezionalisti, che con Cospito condividono idee e obiettivi, bensì di quell’area un po’ più ampia - movimenti, centri sociali, collettivi universitari, intellettuali, artisti - che non si limita a manifestargli solidarietà sulla lotta contro il 41 bis e tende pericolosamente a rappresentarlo come una specie di prigioniero politico.

“Libertà per Alfredo”, così recitano i manifesti appesi in molte città italiane, è uno slogan sbagliato e ambiguo, perché Cospito non è in cella per un errore giudiziario. Ai sinceri garantisti fa impressione la sproporzione tra il fatto per cui oggi è detenuto (due ordigni a basso potenziale nei pressi di una caserma dei carabinieri che non hanno provocato morti né feriti, però avrebbero potuto) e il capo di imputazione che gli è valso una condanna a 20 anni per “strage contro la sicurezza dello Stato”. Ma Cospito era e resta un terrorista. Non un antagonista, un idealista, un figlio di Bakunin o una testa calda. Un terrorista. Uno che praticava e rivendica tuttora la lotta armata, peraltro già condannato, come è noto, anche per aver sparato alle gambe di un dirigente di Ansaldo-Finmeccanica, attentato da lui stesso rivendicato con una agghiacciante lettera comparsa anni fa nella rete dei siti di area: “Quel sette maggio del 2012 - scriveva Cospito - per un momento ho gettato sabbia nell’ingranaggio di questa megamacchina, per un momento ho vissuto a pieno facendo la differenza. Quel giorno non ero una vecchia Tokaref, la mia arma migliore, ma l’odio profondo, feroce che provo contro la società tecno-industriale”. In quella lettera Cospito rivendicava il suo essere “anti-sociale”, il suo disprezzo per la società che lo circonda e per la “civilizzazione”. Della sua vittima, il dirigente di Ansaldo-Finmeccanica Roberto Adinolfi, diceva: “Lo abbiamo visto sorridere sornione dagli schermi televisivi atteggiandosi a vittima. Lo abbiamo visto dare lezioni nelle scuole contro il “terrorismo”. Ma io mi chiedo cos’è il terrorismo? Un colpo sparato, un dolore intenso, una ferita aperta o la minaccia incessante continua, di una morte lenta che ti divora da dentro?”.

La colpa di Adinolfi? Essere capo di una società con progetti sul nucleare: “A me - è sempre Cospito a scrivere - venne di colpire il maggiore responsabile di questo scempio in Italia: Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. Ci volle poco a scoprire dove abitava, cinque appostamenti bastavano. Non c’è bisogno di una struttura militare, di un’associazione sovversiva o di una banda armata per colpire, chiunque, armato di una salda volontà può pensare l’impensabile e agire di conseguenza”. Questo è Cospito e gli anni di detenzione non lo hanno cambiato. Il 41 bis gli è stato applicato perché dal carcere teneva contatti con l’esterno giudicati pericolosi.

Le battaglia a difesa dello Stato di diritto sono sempre condivisibili e vanno sostenute. Il fumettista Zerocalcare ha prodotto un fumetto sul caso Cospito che, a mio giudizio, coglie il cuore della faccenda, e cioè un punto caro ai liberali quanto ai “radicali”: fino che punto lo Stato è in diritto di imporre un regime carcerario che contrasta con il fine rieducativo della pena, previsto dalla Costituzione, oltre che con i principi di umanità? Fino a che punto è giusto farlo anche davanti ai “mostri” (l’iperbole è di Zerocalcare)? E non è proprio verso di loro che lo Stato ha il dovere di applicare regole giuste, a garanzia di tutti, visto che domani può essere un’autorità perversa e deviata a stabilire a suo arbitrio chi è “mostro” e chi no? Ben diverso è occupare un’aula della facoltà di Lettere dell’università La Sapienza a Roma, come è accaduto ieri, vestendo di fatto a Cospito i panni del “compagno di lotta”. Ben diverso è lo scentrato appello firmato da alcuni artisti (Jasmine Trinca, Valerio Mastandrea, Michele Riondino, Paolo Calabresi, 99 Posse), dove il curriculum criminale di Cospito è riassunto con grave superficialità (“Lo accusano di un attentato che però non ha causato né morti né feriti”) e lui viene definito “detenuto anarchico”, quasi a suggerire che sia in cella per le sue idee anziché per i suoi reati.

Ben diverso è invocare “Alfredo libero”, come ha fatto tra gli altri l’ineffabile professoressa di Filosofia alla Sapienza di Roma, Donatella Di Cesare, già famigerata per la tesi secondo cui i confini delle nazioni sono un rottame novecentesco e dunque perché tanto preoccuparsi se la Russia invade l’Ucraina e la smembra (le crisi esistenziali e anagrafiche di molti reduci degli anni Settanta si decidono sempre a un bivio: c’è chi compra il Porsche e chi si reiscrive ad Avanguardia operaia).

Cominciamo dalle basi, dunque: chiamiamolo Cospito e salviamogli la vita. “Alfredo” non può diventare un simbolo dei democratici e, soprattutto, non può essere libero.