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di Simona Siri

Corriere della Sera, 26 settembre 2022

L’autrice afroamericana Jacqueline Woodson racconta la sua infanzia in versi dalla segregazione razziale all’emancipazione attraverso la letteratura.

Jacqueline Woodson sapeva che sarebbe diventata una scrittrice sin da quando era molto piccola. Cresciuta tra Greenville, nella Carolina del Sud, dove trascorreva le estati con i nonni materni a Brooklyn, dove la madre rimasta single aveva trasferito lei e gli altri due figli lasciando l’Ohio, già da piccola aveva l’abitudine di inventare storie, spesso mettendosi nei guai. “Smettila di sognare ad occhi aperti!”, le dice a un certo punto la mamma, aggiungendo “se dici le bugie, un giorno ti metterai a rubare”. In quarta elementare, la prima volta che la maestra legge in classe Il gigante egoista di Oscar Wilde, rimane così colpita da piangere tutto il giorno. Quel racconto diventa un’ossessione. Quando le viene chiesto di leggere la storia in classe, Jacqueline la ripete a memoria, senza neanche dover guardare le pagine. I compagni, stupiti e sorpresi, le chiedono come abbia fatto a imparare tutte quelle parole, ma lei non sa cosa rispondere. “Come posso spiegare a qualcuno che le storie per me/sono come l’aria/le inspiro e le espiro/tutto il tempo”, scrive in Bambina Nera Sogna. Bravissima dice la maestra, sorridendo. “Jackie, è stato davvero bellissimo. E adesso so/che le parole sono il mio Tingalayo. Le parole mi fanno brillare”. Pubblicato negli Stati Uniti nel 2014 e insignito di diversi premi tra cui il National Book Award, Bambina Nera Sogna viene etichettato come letteratura per giovani adulti, ma è in realtà un libro per tutti. Un romanzo autobiografico in versi liberi, un memoir che intreccia pubblico e privato, storia con la s minuscola e Storia con la S maiuscola dal momento che ripercorre la vita dell’autrice partendo dall’infanzia - è nata nel 1963, anno della famosa marcia su Washington e del discorso di Martin Luther King, I Have a Dream - per arrivare ai giorni nostri, alla quotidianità di Bushwick, alla scoperta del potere della parola e del proprio talento. I capitoli sono brevi, qualche pagina al massimo, e hanno titoli apparentemente effimeri come “viaggio” o “i cugini” o “casa” o “serata capelli”. Ma è proprio dentro questa apparente quotidiana semplicità che Woodson giunge alla realizzazione del famoso detto per cui il privato è sempre politico.

La Carolina del Sud, dove trascorre le estati con i suoi nonni, è la terra della segregazione, delle marce per i diritti civili, dove i neri per paura si siedono ancora nei sedili posteriori dell’autobus - “Preferisco questo, dice la nonna/ai bianchi che ci guardano come se fossimo la feccia” - nonostante il nonno le dica che loro hanno il diritto di “camminare, sedersi e sognare dove vogliamo”. In un altro capitolo scrive: “Abbiamo tutti lo stesso sogno, dice la nonna/Di essere uguali in un paese che dovrebbe essere/la terra della libertà”. Brooklyn è il posto delle possibilità, ma anche della nostalgia, dove l’asfalto d’estate brucia i piedi e dove la sua migliore amica Maria viene da Porto Rico, ed è anche la scoperta di Angela Davis, delle Black Panther e dei primi pugni alzati. Raccontare la sua storia in versi consente a Woodson di condensare gli eventi e di concentrarsi solo sui momenti più significativi usando immagini vivide, emozioni sincere, riflessioni profonde. Tutto è necessario, nulla è superfluo, neppure le virgole e gli a capo. Come ha spiegato lei stessa durante una visita in una scuola - un’attività che fa di frequente e che farà anche in Italia grazie al progetto WY Fandango per le Scuole dal nome dell’omonima collana Weird Young nata nel 2020 - la scelta di scrivere una autobiografia in versi è dettata dal modo in cui i ricordi della sua infanzia si sono presentati a lei, in “piccoli, intensi momenti, ma con tutto uno spazio bianco intorno ad essi. Non sai cosa sia successo prima o dopo”. Scriverlo come una narrativa diretta sarebbe stato disonesto, dice Woodson, perché non è così che sono strutturati i suoi ricordi. Questo formato facilita invece la lettura, le righe sono snelle, i capitoli brevi e il linguaggio accessibile, raccontato dal punto di vista di un bambino. Le idee e le emozioni espresse non sono però meno complesse: la semplicità delle ossa nude del linguaggio implica molto di più di quanto non affermi apertamente. Alla fine del libro scrive: “Spesso mi chiedono se ho avuto un’infanzia difficile. Penso che la mia vita sia stata molto complicata e molto ricca. Guardandomi indietro, credo che la mia storia sia al contempo banalissima e straordinaria. Non potrei immaginarne un’altra”. Woodson è consapevole di aver avuto la fortuna di essere nata in un periodo in cui nel mondo avvenivano cambiamenti epocali, e di essere stata parte di quei cambiamenti. Il suo dovere era condividerli, raccontarli. Il nostro, di leggerli.