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di Enrico Sbriglia*

L’Opinione, 5 luglio 2023

C’è da scommetterlo! Da qui a poco verranno indirizzate verso il Governo Meloni ed il ministro Carlo Nordio tutte le colpe del mondo per quello che risulta essere lo stato orribile di tante nostre carceri e, come è immaginabile, si soffierà sul fuoco apparentemente sopito dei detenuti, dei loro familiari e di quanti, pure a ragione, ne lamentano le tristi condizioni. Gli agitatori ideologici, pur di fare “ammuina”, proveranno ad attizzarlo alimentandolo con ogni sorta di esca.

Si tratta di quello stesso fuoco che, in questi ultimi dieci e passa anni “di mischiate” politiche, si è tenuto soffocato negli ambienti intellettuali che contano, narcotizzandolo con le promesse, mai mantenute, di miglioramento del sistema penitenziario e, addirittura, rilanciando, da astuti bari, delle proposte oggettivamente impossibili, se non anche provocatorie, capaci però di sollevare anche la reazione piccata delle stesse organizzazioni sindacali del personale penitenziario, in primis quelle della polizia, e di quanti hanno il torto di occuparsi pure delle vittime dei reati.

Per converso, però, nessun serio investimento in risorse umane, davvero adeguate nel numero e nella qualità professionale, nonché in quelle strumentali e tecnologiche è stato, di fatto, realizzato, non mostrandosi i governi trascorsi neanche in grado di contenere il prevedibile e scandito turnover conseguente agli inevitabili pensionamenti del personale, favorendo così il determinarsi di voragini organizzative pericolosissime negli organici, dove mancano interi pezzi della filiera, determinando dei black holes che si traducono in uno stato d’insicurezza per le nostre carceri.

Insomma, ancora una volta, il tradizionale lancio di fumogeni ideologici, ammantati da belle parole, farciti con frasi d’effetto e con l’immancabile richiamo ad asseriti studi statistici, soprattutto in tema di recidiva, senza però mai avvalorarne la chiara paternità scientifica, ma dando vita ad un carosello di dotte dichiarazioni che, riflesse tra loro e così rafforzandosi in un astuto gioco di sponda, ha consentito agli oranti accreditati dal sistema di spacciarle per buone, benché nessun serio peer review sia stato realmente compiuto.

Alimentati i dogmi penitenziari, si sono poi invocati modelli carcerari d’importazione, semmai sudamericana, dimenticando di ricordare come in quella parte del mondo, quando scoppiano le rivolte, non si contano i feriti tra i detenuti e le forze di sicurezza, ma ci si accontenta di annotare il numero delle teste mozzate. Lo stucchevole richiamo a “realtà penitenziarie aperte”, situate in regioni del mondo ove, non poche volte, ci pervengono al contrario immagini e notizie poco rassicuranti sul piano della tenuta sociale di quelle realtà, è stato propinato con disinvoltura, quasi a convincerci sulla “inutilità del carcere”. Insomma, ancora una volta si è potuto constatare come la menzogna, quando rotola a valle, non solo tenda ad ingrossarsi come volume ma, addirittura, si trasformi in verità, seppure priva di ogni concreto e testato accertamento, pure perché mancante di ogni realizzata pre-condizione di fattibilità.

Ma, d’altronde, è un gioco che conviene a tanti quello di alzare, sempre di più, l’asticella delle attese, mentre il presente si mostra come un girone infernale, la cui responsabilità va additata al fato, talché sarebbe un inutile dispendio di energie quello di ricercare colpe e colpevoli, quantomeno in ambito politico o di alta amministrazione. Eppure tutti siamo convinti, giustamente, che occorra davvero “umanizzare il carcere”, ma a farlo non possono certamente essere quanti lo abbiano ridotto in questo stato penoso.

Occorrerebbe, invece, favorire una autentica azione di conciliazione penitenziaria, dove la politica, ed il governo anzitutto, porgano attento ascolto verso gli stessi operatori penitenziari ancora in servizio e a tutte le organizzazioni sindacali, che “matte non sono; un ascolto che fino a oggi, purtroppo, è mancato. Occorrerebbe uno studio serio, pure per proporre soluzioni di alleggerimento di un carico umano di “captivi” insopportabile, e non tanto come numero in sé, ma come obiettive capacità recettive delle nostre strutture penitenziarie, sempre più indecenti e carenti a causa di una antica incapacità a manutentarle regolarmente; semmai rilanciando, in accordo con la magistratura, le misure alternative alla pena e, in primo luogo, quella delle semilibertà, oggi praticamente assenti.

Finora, per realizzare delle nuove carceri, il tempo medio è stato probabilmente quello di non meno venti anni dal momento della decisione di farle, talché, immaginare che sia quella la soluzione a breve o medio periodo è una illusione, è autolesionismo istituzionale. E basta poi con il furbesco rimando a nuovi “Stati generali” che fanno rima con “Stati confusionali”, per fare il punto della situazione, ben noto a quanti lavorino in carcere, per immaginare possibili concrete soluzioni, concentrandosi invece sul perché non vengano correttamente impiegate le norme già esistenti. Al trentun maggio di quest’anno, ad esempio, le persone detenute all’interno delle nostre carceri erano 57.230, di queste le donne erano 2.504: ebbene le persone ristrette in semilibertà solo 1151, pur a fronte di ben di 42.050 condannate, neanche il 2,8 per cento.

Qualcuno potrebbe affermare: “Ma vi sono i detenuti pericolosi, i mafiosi, l’alta sicurezza? ebbene, pure ove volessimo sottrarre questi, nella misura di circa 750 del circuito del 41 bis ed altri 9.200 dell’alta sicurezza, non si spiegherebbe un numero così modesto di detenuti semiliberi. La semilibertà, si chiarisce, non è libertà, perché si è tenuti ad un programma di trattamento controllato dalle forze dell’ordine e anche dagli assistenti sociali, attraverso stringenti verifiche sul posto di lavoro o dove si sia autorizzati a collocarsi, inoltre è contemplato il rientro giornaliero in carcere.

Praticamente, ad una massa di detenuti, dalla quale possiamo sottrarre gli autori dei reati più gravi, viene di fatto negata una possibilità contemplata dal nostro ordinamento giuridico fin dal 1975; eppure tutti hanno la consapevolezza che stiamo parlando di una popolazione ristretta costituita da soggetti prodotti da condizioni di disagio sociale, che si traduce in microcriminalità, figlia pure di una “disoccupazione” antica, così come per l’assenza di reti sociali, di buoni maestri di vita, di scuole funzionanti, conseguenza di una tossicodipendenza diffusa, alla mercè delle grandi criminalità, di disagio psicologico e psichiatrico, di malattia e questo non da oggi lo dicono a squarciagola le organizzazioni sindacali tutte, in primo luogo quelle della polizia penitenziaria, così come il mondo del volontariato e di tutti gli operatori penitenziari piegati dalle carte e dal loro inutile esercizio amministrativo. Non c’è bisogno di essere sociologi per comprenderlo, basterebbe udire ciò che da anni gli stessi poliziotti penitenziari urlano delusi, quando raccontano le loro condizioni di vita lavorativa, al punto, e questo è significativo, che hanno chiesto che venisse istituita anche per loro la figura del garante nazionale, il che potrebbe voler dire che finora la figura istituita per le persone detenute e private della libertà personale non sia stata percepita come garante anche di un equilibrio necessario tra sicurezza e diritti umani.

La circostanza che fosse passata, obiettivamente in silenzio, l’insana decisione governativa di alcuni anni fa, che ha ordinato la pericolosissima aggregazione di masse di persone detenute, fatte migrare dalle loro celle sovraffollate, ma comunque di regole costituite da gruppi omogenei e/o non in conflitto tra di loro di detenuti, per collocarle dalla petit chambre della stanza detentiva assegnata a quella grand chambre, costituita dai corridoi delle sezioni (per essere più chiaro, è come se si spostassero gli alunni di tutte le classi di una scuola, perché le aule risultano inadeguate, presso i corridoi di ogni piano, nonostante si tratti di classi diverse, con insegnanti diversi, con programmi diversi, e con età degli studenti anch’esse diverse), ha, in molte realtà, fatto perdere ogni forma di serio controllo delle persone ristrette, incentivandole a dare vita, sotto la regia di abili capi, alle stesse logiche di occupazione degli spazi che si attuano negli slarghi delle periferie abbandonate a sé stesse.

In tal modo replicandosi le logiche claniche di organizzazione della vita di quei luoghi, dove alla sorveglianza della polizia penitenziaria, nei fatti impossibile da parte dei pochi agenti in servizio, si contrappone quella delle sentinelle dei vari gruppi malavitosi, distinti ovviamente su basi etniche, regionali, di banda, grado ed anzianità. I fautori dello establishment penitenziario la chiamano “sorveglianza dinamica” (forse perché sfugge velocemente di mano), imitando solo nel nome quello che in altre parti d’Europa si realizza con distinti presupposti e reali risorse umane e tecnologiche e non, certamente, come lo si è imposto da noi, determinando la dura e preoccupata reazione della generalità dei poliziotti penitenziari e di quanti, per davvero, operino all’interno degli istituti di pena, e non presso gli ovattati uffici ministeriali, dove il fetore ed i rumori delle carceri non giungono e dove, di regola, ogni richiesta umana (soprattutto se si tratti di invocazioni di aiuto) si tramuta in altra carta che spera di essere letta e non semplicemente accatastata.

Immaginate, per un momento, come debba essere la vita in quei corridoi, soprattutto per chi, seppure detenuto, semmai è davvero innocente, anche se tale condizione potrà emergere dopo qualche tempo, nel corso della definizione del procedimento penale che lo riguardi. Costretto a lasciare ogni giorno la propria cella, dove semmai era riuscito a costruire un rapporto di dialogo con qualche compagno, si troverà a cospetto dei gruppi clanici che parlano tutte le lingue del mondo e che, semmai, vorrebbero saggiare anche la sua, se di bella presenza, in senso metaforico ovviamente.

Corridoi intasati di persone detenute, dove trafficare un qualcosa di illecito è un attimo, che sia droga oppure una sim-card, e non una lama rudimentale: uguali sono come modalità di scambio, semmai sotto l’indifferente sguardo di telecamere non funzionanti, ma che comunque, pur ove efficienti, possono essere facilmente aggirate, mentre l’unico agente in servizio è circondato dagli altri detenuti i quali gli impediscono di vedere oltre la barriera umana che essi stessi hanno formato; come se non bastasse, la vigilanza viene ulteriormente impedita dai portoncini blindati delle celle, lasciati spalancati, trasformati così in paratie, capaci di formare degli spazi addirittura riservati, quasi dei fitting room.

Quelle location, così come i cortili dei passeggi, sono i posti buoni per regolare dei conti in sospeso tra gli stessi gruppi malavitosi, i quali potrebbero perfino armarsi delle lunghe gambe dei tavolini di legno, trasformati in rudimentali manganelli, per aggredirsi l’un verso gli altri; nel frattempo, semmai, chi ha ricevuto la sua bustina o la roba nascosta nella carta stagnola, se la gusta beatamente. Di fronte alle risse poco c’è da fare da parte dei poliziotti penitenziari; spesso neanche si possono usare gli idranti, perché le lance ed i nastri sono riposti proprio all’interno dei corridoi occupati dai detenuti (gli architetti e gli ingegneri non avevano previsto che divenissero piazze), idem per gli estintori, per cui potrebbe perfino accadere che per evitare che siano i detenuti ad impiegare i dispositivi antincendio in caso di rivolta, semmai contro gli stessi agenti, siano stati perfino rimossi e riposti altrove, col rischio che, in caso di bisogno, l’operatore di polizia penitenziaria, non informato sullo spostamento, a motivo della rotazione dei posti di servizio, manco sappia dove prenderli ed in quanto tempo. Sembrano barzellette, lo so, ma se non ci credete andate a chiederlo agli addetti ai lavori, quelli veri, quelli che buttano il loro sangue nelle sezioni e che attendono da anni risposte serie.

*Presidente onorario del Cesp (Centro europeo di studi penitenziari) di Roma