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di Michele Serra

L’Espresso, 3 aprile 2022

Rimosso da decenni, l’arsenale nucleare in grado di distruggere l’umanità viene riportato da Putin all’attenzione mondiale. Sono 15mila gli ordigni nel mondo: per questo torna l’urgenza del disarmo.

In un recente incontro pubblico a Sesto San Giovanni (si presentava il libro-testamento di Gino Strada, “Una persona alla volta”), uno degli amici storici di Gino, Ennio Rigamonti, ha chiesto ai presenti chi di loro sapesse che cos’è l’Orologio dell’apocalisse. Nessuno al di sotto dei sessant’anni sembrava averne idea, se non azzardando una risposta in chiave climatica. “Mio padre - ha aggiunto Rigamonti - era un operaio con la terza elementare, ma sapeva benissimo che cosa fosse. Tutti, in quegli anni, sapevamo che cos’era”.

“Quegli anni” sono i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, il lungo dopoguerra, la ricostruzione e il suo energico sbocco nel boom economico, il bipolarismo Usa-Urss come baricentro della storia del mondo, la Guerra Fredda, la crisi di Cuba. Nel 1962 (crisi di Cuba) avevo solo otto anni, ma ho ancora forte memoria dell’angoscia degli adulti, davanti all’unico telegiornale dell’epoca, attanagliati dalla paura di una nuova guerra che ricominciasse esattamente da dove aveva finito - soltanto diciassette anni prima - quella precedente: il fungo atomico che si leva sopra città vetrificate dal calore. E gli abitanti vaporizzati, l’aria la terra e l’acqua avvelenate, e tutta la vita organica cancellata dalla vampa infernale.

L’Orologio dell’apocalisse (Doomsday Clock) era un conto alla rovescia simbolico inventato nel 1947 - dunque un attimo dopo Hiroshima e Nagasaki - su iniziativa di alcuni scienziati americani, preoccupati dall’escalation nucleare. Lo scopo era misurare la distanza ipotetica dalla fine del mondo. La causa unica e indiscussa dell’apocalisse sarebbe stata la guerra atomica. Solo a partire dal 2007 esiste una sorta di aggiornamento, di “re-editing” di quel minaccioso orologio, con l’inserimento dei mutamenti climatici come ulteriore attore della potenziale catastrofe autodistruttiva. E solamente adesso, nel 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina e l’esplicito richiamo di Putin al suo micidiale arsenale nucleare, la bomba atomica, come sessant’anni fa, è tornata a essere il motore visibile di quelle lancette, di quel presagio di estinzione.

Posso dare supporto alle parole di Ennio Rigamonti. Nella mia infanzia, e ancora di più nella maturità dei miei genitori, la minaccia atomica era al centro del dibattito politico, della vita culturale e artistica, nonché di quello che si sarebbe presto chiamato immaginario collettivo. Per preparare un mio breve monologo televisivo ho navigato per un pomeriggio alla ricerca di “notizie atomiche”, e mi ha impressionato notare che si tratta di un argomento datato. Decisamente datato, e molto concentrato nel tempo.

Quasi tutti i materiali rilevanti, politici, culturali, artistici, sono degli anni Cinquanta, Sessanta e (meno) Settanta. Il “Juke-box all’idrogeno” di Allen Ginsberg, la “Bomba” di Gregory Corso e tutta la lacerante poetica della beat-generation. I carteggi e gli appelli di Albert Einstein e Bertrand Russel, con folta partecipazione di premi Nobel di ogni dove. La solenne sortita di Togliatti - era il 1954 - sulla minaccia atomica come salto di qualità mai visto prima (“l’umanità dinanzi al problema della propria salvezza”) con le conseguenti accuse di “pacifismo strumentale” e le roventi polemiche; ma anche, proprio attorno a quel tema, l’apertura del dialogo tra comunisti e cattolici (La Pira tra i primi). La crisi di coscienza di Oppenheimer, uno dei padri della bomba all’idrogeno, e l’accanito dibattito sulla non-neutralità della scienza, l’ombra etica che oscura il trionfalismo tecnocratico, vedi anche “La scomparsa di Majorana” di Leonardo Sciascia (1975), che rilesse la misteriosa fine del giovane fisico di via Panisperna, avvenuta subito prima della guerra, anche alla luce del rovello morale attorno alla creazione dell’atomica. La nascita dei primi movimenti pacifisti e per il disarmo e la loro evoluzione fino al “make love not war” dei beatnik e degli hippies. “Eve of destruction” di Barry McGuire è del ‘65, “Noi non ci saremo” dei Nomadi del ‘66, “Masters of War” di Dylan del ‘63. Ho fatto un elenco frettoloso e incompleto: ma era per dare l’idea di quanto centrale sia stato, dopo la Seconda guerra e per un paio di decenni, il fungo atomico che incombeva all’orizzonte.

Poi, è come se l’argomento atomico svanisse, o diventasse carsico. Avesse perduto la sua visibilità, la sua evidenza, la sua drammaticità. Salvo rispuntare, inevitabilmente, dopo Chernobyl (1986), però in versione civile e ambientale, non più bellica: e non è davvero la stessa cosa, perché mentre le centrali nucleari, almeno sul piano teorico, sono progetti a fin di bene che deragliano per errori di calcolo e imprevidenza, gli ordigni nucleari sono armi di distruzione di massa progettate per incenerire. Al massimo se ne può invocare, come prova a discarico, lo scopo di deterrenza. Non certo il fine progettuale: che è distruggere quanta più porzione di Terra sia possibile, completa di abitanti.

Ovviamente molto è accaduto, anche sul fronte politico, dagli Ottanta ai giorni nostri, e soprattutto dopo la caduta del Muro. Impossibile riassumere il lungo e complicato iter “tecnico” dei vari accordi bilaterali Start (Strategic Arms Reduction Treaty) tra americani e russi, le solenni promesse e le effettive riduzioni delle testate, gli amichevoli incontri (il più recente tra Obama e Medvedev a Praga nel 2010) e le radicate diffidenze. Quello che conta è che, al netto di molte chiacchiere e qualche firma svolazzante in calce a questo o quel trattato, oggi si calcola che nel mondo ci siano quindicimila ordigni nucleari di vario calibro, in larghissima parte in mani americane e russe, poi il gruzzolo (circa 300 a testa) di testate cinesi e francesi, infine Pakistan, Israele, India e Corea del Nord a completare, con i loro spiccioli comunque mortali, il cosiddetto club nucleare.

Considerando che basterebbero una cinquantina di atomiche a cancellare l’umanità (non la Terra: l’umanità, differenza sulla quale abbiamo finalmente imparato a meditare. Fine del mondo e fine dell’umanità non sono concetti equivalenti), diventa obbligatorio far notare che le altre 14mila 950 testate nucleari sono, come dire, un paradossale eccesso, non essendoci centinaia di generi umani da estinguere, ma uno solamente.

Se ne deducono soprattutto due cose. La prima è che l’attuale arsenale atomico non ha, come dire, un autentico, riconoscibile valore d’uso. È come se producessimo diecimila ore di televisione per un palinsesto di 24 ore; o comperassimo mille lavatrici per una sola famiglia. Dunque da un lato la force de frappe atomica (la definizione è di De Gaulle, altro tuffo negli anni Cinquanta) ha funzione simbolica, non strategica. Non è una quantità, ma una qualità terrifica, diciamo un travestimento, come quando un uccellino alza la cresta e arrota la coda per apparire più grosso e temibile. Da un altro lato, come si direbbe al bar: qualcuno ci deve pure avere guadagnato qualcosa, da questa mostruosa superfetazione di ordigni; e dunque domandarsi come funziona l’industria bellica, quali tasche riempie, quali rendite di posizione rafforza e quali nuove speculazioni fa nascere, non solo è legittimo, ma aiuterebbe molto a capire come è possibile che il fabbisogno di megatoni dell’umanità sia stato “gonfiato” al punto da accumulare una quantità di atomiche trecento volte eccedente il loro scopo “tecnico”, che è incenerire il genere umano.

La seconda cosa, meno scontata, è che siamo arrivati (finalmente, viene da dire) alla fine di un impressionante processo di rimozione globale. Siamo sempre rimasti seduti sopra una montagna di bombe atomiche, ben più alta e distruttiva di quella che generò l’esplicita paura dell’apocalisse nucleare al tempo dei nostri padri e nonni; ma abbiamo fatto finta di niente per quarant’anni, fino a che un despota brutale ha avuto la schiettezza di ricordarci che siamo sotto tiro.

Certo, comitati per il disarmo hanno continuato a esistere, operatori di pace a mobilitarsi, ma la Bomba non ha più avuto, per decenni, alcuna centralità nel dibattito pubblico. Sicuramente l’emergenza climatica e ambientale hanno avuto il loro ruolo, in questa distrazione. Ma la Bomba fu, ed è, la madre di tutte le emergenze ambientali e climatiche, è colei che per prima ha messo in luce l’azione dell’uomo come motore della distruzione.

Se c’è un buon motivo per tornare in piazza, oggi, è per reclamare il disarmo nucleare come precondizione per tornare a parlare del futuro. Niente è no-future come la Bomba. E nessun argomento come il disarmo nucleare potrebbe ristabilire un apprezzabile legame culturale, politico, emotivo, tra noi vecchi baby boomers, che la paura della Bomba ce l’abbiamo nel sangue, ci siamo nati dentro, e i ragazzi di adesso, che sono costretti a chiedere ai genitori che cos’è la bomba atomica, perché se ne parla così tanto, e perché se ne è parlato così poco per tanti, troppi anni. Bentornata, Bomba: almeno sappiamo di quale pasta è fatto, homo sapiens.