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di Susanna Marietti*

L’Unità, 22 marzo 2023

Ventiquattro persone si sono tolte la vita nelle carceri italiane dall’inizio di questo 2024. Numeri drammatici, che si aggiungono a quelli altissimi degli ultimi anni. A cosa vogliamo dare la colpa? A due minuti di distrazione del piantone? Al fatto che la cella non era stata dotata di lenzuola di carta? O piuttosto assenza di ogni speranza di vita per queste persone? Il carcere seleziona quelle già disperate, le chiude in celle sovraffollate e anonime, non prospetta loro alcuna possibilità di futuro, di lavoro, di relazioni sociali. Sempre più negli ultimi decenni abbiamo trasformato le carceri in grandi contenitori di disperazione. Non di criminalità, ma di disperazione. E adesso abbiamo delle carceri disperate, che ce lo dimostrano nel modo più drammatico.

Chi ha detto che il grado di civiltà di un Paese si misura dallo stato delle sue prigioni non credo pensasse alle infiltrazioni di muffa nei corridoi o al linoleum rovinato. Certo, la muffa non ci deve stare, dovremmo stanziare un po’ più di fondi per manutenere gli edifici nei quali stipiamo le persone detenute. Ma ben più rilevante è andare a vedere chi ci mettiamo dentro quegli edifici. Da almeno un paio di decenni, e sempre di più, li stiamo usando per rinchiudere tutti coloro con cui non vogliamo compartire il nostro benessere, chi è portatore di un disagio sociale che avrebbe bisogno di risorse e di attenzioni per essere affrontato.

L’uso delle politiche penali per tappare i buchi lasciati vuoti dalle politiche sociali è una strada che abbiamo visto percorrere nel tempo da governi di tutti i colori. La voce grossa contro la piccola criminalità e le fasce più marginali alla ricerca di facile consenso, anche. E pure l’inasprimento populistico del volto della giustizia in totale indifferenza verso il dato statistico e la realtà dei fatti. Ma mai così tanto quanto oggi. Fin dalla prima riunione in assoluto del Consiglio del Ministri guidato da Giorgia Meloni, quella che introdusse il reato legato ai rave party, abbiamo avuto valanghe di interventi normativi volti a introdurre nuove fattispecie, ad aumentare le pene per quelle già esistenti, a inasprire le risposte amministrative e fintamente preventive nelle periferie urbane. I reati introdotti riguardano solo i disperati della terra, quelli che poi si ammazzano. Un rapido sguardo alle biografie dei ventiquattro detenuti che si sono suicidati quest’anno, ci mostra il loro scarsissimo spessore criminale. Un esempio paradigmatico, visto l’enorme peso quantitativo che ha nella penalità italiana, è quello della normativa sulle droghe, inasprita dal cosiddetto decreto Caivano in particolare per quanto concerne i fatti di lieve entità, che verosimilmente riguardano chi fa uso di sostanze in prima persona ed è coinvolto eventualmente solo in via occasionale con il piccolo spaccio. Le galere si riempiono di tossicodipendenti, spesso con doppie diagnosi, di persone con problemi psichiatrici. Le quali vengono messe in carcere cercando di fare in modo che non ne escano. Il reato di rivolta penitenziaria, che il disegno di legge governativo attualmente in discussione in Parlamento vuole introdurre, serve a questo. Qualsiasi disagio comportamentale, che possa portare anche solo alla pacifica disobbedienza e resistenza non violenta agli ordini della polizia penitenziaria, sarà punibile con una pena fino a sette anni di ulteriore reclusione. Ma di cosa stiamo parlando? Dell’assenza delle lenzuola di carta o dell’assenza di ogni speranza di vita per queste persone? Il carcere seleziona quelle già disperate, le chiude in celle sovraffollate e anonime, non prospetta loro alcuna possibilità di futuro, di lavoro, di relazioni sociali.

Per affrontare con decisione il problema dei suicidi in carcere bisogna dunque, prima di tutto, diminuire i numeri della popolazione detenuta, facendo sì ad esempio che tossicodipendenza e disagio psichico siano sempre presi in carico dagli operatori territoriali del settore e mai dai poliziotti, nonché rilanciando su pene e misure alternative. In secondo luogo, modernizzare e dotare di significato la vita penitenziaria, oggi tornata a un’idea antica che vede la pena coincidere con l’ozio forzato dentro una cella. Infine, creare empatia e vicinanza al carcere. In questo senso è stata preziosa l’iniziativa delle Camere Penali che mercoledì scorso ha portato gli avvocati fuori dalle Aule di Giustizia a manifestare per la dignità delle persone detenute.

*Coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone