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di Paolo Griseri

La Stampa, 7 giugno 2022

L’indigenza soffre da sempre di una concezione moralistica: ora subisce l’egemonia culturale dei populismi. Il lavoro frammentato e precario rende l’Italia un paese sempre meno vivibile, senza giustizia sociale.

Un Paese in cui la povertà non ha diritto di cittadinanza. È quello descritto da Chiara Saraceno, David Benassi e Enrica Morlicchio e nell’ultimo libro (La povertà in Italia, Il Mulino) che propone la radiografia italiana dello stato di indigenza. E la paragona, quasi sempre con esiti sconfortanti, con quanto accade negli altri Paesi europei. Una fotografia che tiene insieme la lunga storia dei redditi bassi italiani, dal 1992, anno della prima crisi segnata dalla svalutazione della moneta, al crollo seguito alla crisi finanziaria e industriale del primo passaggio di decennio del nuovo secolo, fino agli effetti della recente pandemia.

Per scoprire che ancora oggi nel profondo della società italiana la povertà è considerata una colpa, il risultato di una scarsa propensione a darsi da fare, frutto dell’indolenza più che dell’indigenza. Concezione novecentesca, nata quando il lavoro non mancava ed era retribuito con continuità (anche se mai a livelli adeguati) e quella della povertà era considerata una questione da affidare all’assistenza, non certo un elemento di cui dovesse occuparsi la politica. Anche perché i partiti coprivano tutto lo spettro, dai redditi bassi delle barriere operaie ai vertici della scala sociale. Modo di pensare certamente legato a un mondo molto diverso, in cui lavoro e povertà non coesistevano mentre i dati riportati nel volume dimostrano che oggi è crescente il numero dei lavoratori poveri (poor workers, o come precisa meglio Saraceno, in-work poor).

Ma anche una mentalità che sarebbe erroneo liquidare come frutto di concezioni superate. Perché è vero, come sottolineano gli autori della ricerca, che il giudizio negativo sulla povertà “è frutto di una concezione moralistica” ma è altrettanto vero che la categoria stessa di povertà come lente per l’analisi della società è scivolosa, soprattutto se messa in mano a una politica che subisce l’egemonia culturale dei populismi. Tant’è che né il modello simil peronista dei 5 stelle con il loro Reddito di cittadinanza, né quello sovranista-antieuropeo della Lega con il mito di Quota 100 hanno risolto il problema della povertà degli indigenti o del ricambio generazionale nei luoghi di lavoro incentivando l’aumento del reddito dei più giovani. Il fatto è che nella vecchia concezione novecentesca, quando alla categoria della povertà si preferiva quella di giustizia sociale, era il sistema dei partiti a farsi carico dei redditi più bassi in uno scambio esplicito tra consenso elettorale e difesa degli interessi di chi viveva alla base della piramide sociale. Oggi è tutto più complicato e semplice insieme: il consenso elettorale si scambia con una sceneggiata dal balcone di Palazzo Chigi.

Eppure, nonostante questi evidenti limiti, è un fatto, riconoscono gli autori, che il Reddito di cittadinanza è il primo tentativo in Italia di protezione universale dei più poveri. Con quel provvedimento si è cominciato a colmare una lacuna vistosa rispetto ai sistemi di welfare degli altri Paesi europei. I dati riportati nella ricerca (Saraceno è presidente del comitato nominato dal ministro Orlando per la valutazione del Reddito di cittadinanza), dimostrano che prima della pandemia la misura aveva contribuito effettivamente ad alleviare, se pure molto parzialmente, le difficoltà degli indigenti. Poi, evidentemente, la diffusione del Covid ha rimescolato le carte in tavola. Tanto che c’è da chiedersi quanto sia ancora in grado di reggere il nostro attuale sistema di welfare, soprattutto se a tutti questi fattori si sommeranno le conseguenze dell’aggressione russa all’Ucraina. Ma la riforma generale del sistema di ammortizzatori sociali, sul tavolo della politica e delle forze sociali da lungo tempo, non riuscirà a vedere la luce se non si risolve il problema di fondo che fino ad oggi ne ha praticamente impedito il varo: chi paga?

Nel vecchio sistema novecentesco l’ammortizzatore principale, la cassa integrazione, era sostanzialmente pagato dai lavoratori e dalle imprese. È dalle loro buste paga e dai lori profitti che arrivavano i denari per gli assegni mensili in caso di fermo dell’attività produttiva. Certamente nei casi più difficili interveniva lo Stato finanziando la cassa integrazione in deroga. Ma di fronte a un mondo del lavoro frammentato e precario, chi pagherà gli ammortizzatori sociali? Nei momenti più difficili della pandemia, le casse pubbliche hanno pagato la cassa integrazione anche ai lavoratori autonomi. Un caso eccezionale, naturalmente. Ma se si volesse allargare la cassa in modo permanente anche a quella categoria di lavoratori, chi la pagherebbe? Ecco allora che il tema di fondo da cui era partita la ricerca degli autori del volume, torna nelle conclusioni: la lotta alla povertà non può prescindere dalla giustizia sociale. Il problema è lì, sul tavolo. I dati e le analisi della ricerca di Saraceno, Benassi e Morlicchio possono aiutare a risolverlo.