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di Marianna Caiazza

Il Riformista, 1 aprile 2024

“Le dichiarazioni della persona offesa possono essere poste da sole al fondamento del giudizio di penale responsabilità dell’imputato, purché esse siano sottoposte ad un adeguato vaglio di coerenza e di attendibilità intrinseca ed eventualmente estrinseca, tanto più scrupoloso allorquando la parte offesa, come nel caso in esame, sia costituita parte civile, con ciò facendosi certamente portatrice di un interesse economico nel processo”.

Questo il faro che ha guidato l’analisi dei fatti prima, e la decisione poi, del Tribunale di Brescia che ad ottobre 2023 ha assolto con formula piena l’imputato H.M.I. dalle infamanti accuse che lo hanno posto al centro di una pesante gogna mediatica: un marito violento, aggressivo, incapace di trattenere gli scatti d’ira che lo portano a colpire la propria moglie con calci e pugni e ad insultarla con epiteti irripetibili. Un uomo che violenta la donna che ha sposato, che le imprime sul corpo dei segni che lui intende come marchi: lei è sua, e di nessun altro. Le accuse della - ormai ex - moglie di H.M.I. hanno dato origine, nel 2019, ad un procedimento penale a suo carico che però, secondo la Procura di Brescia, avrebbe già potuto concludersi neanche un anno dopo, ritenuta “l’in- fondatezza della notizia di reato”.

Non è d’accordo il Giudice per le Indagini preliminari, che dispone l’imputazione coatta: il processo si deve fare. È a questo punto il Tribunale in composizione collegiale ad avere in mano le carte e a dover mettere insieme i pezzi del puzzle. Esercizio non facile, anche perché non sono poche le contraddizioni: ci sono ritrattazioni, nuove versioni dei fatti, narrazioni lacunose, e poi una relazione extraconiugale con un uomo che, a parere dei giudici, avrebbe avuto un ruolo determinante nella vicenda e nelle precise scelte processuali compiute dalla donna. Si fa strada un’ipotesi alternativa: che la donna, “determinata a separarsi dall’Hasan, senza dubbio sfaticato, iracondo e sposato controvoglia, abbia percorso tutte le strade a sua disposizione (…) per liberarsi dell’uomo e con lui dell’opprimente complessiva situa- zione familiare all’evidenza non riconducibile alla responsabilità del marito”. D’altra parte, il racconto della vittima non regge. Secondo i giudici, alcuni episodi de- nunciati dalla ex moglie sono “avvolti dalla coltre di incertezza restituita al dibattimento dai cambi di versione, dalle contraddizioni anche storiche e dalle mendacità della persona offesa”.

Altri neppure hanno rilevanza penale. Infine, la donna e l’amante - ora compagno - si sarebbero contraddetti tra loro “nell’affannosa ricerca di solide prove a fondamento della specifica ipotesi di accusa”, e ciò con l’effetto di “un macroscopico ed irrimediabile inquinamento probatorio”. Di fronte ad un simile quadro, allora, il Tribunale torna a rivolgersi a quello che è il faro per l’accertamento della verità processuale soprattutto in quei giudizi in cui, si dice, “è la mia parola contro la tua”, dove gli spettatori del reato - o della sua insussistenza - sono solo i suoi naturali protagonisti: per essere vittima non basta dichiararsi tale. Occorre riscontrare le parole di chi accusa, verificarne la credibilità, immergerle nel compendio probatorio raccolto e convalidarle. Questo esercizio è stato fatto dai giudici di primo grado con l’esito riferito: il fatto non sussiste, l’imputato va assolto. Per il Tribunale la parte offesa ha offerto narrazioni incoerenti, mendaci e contraddittorie in sé, ma non solo: mancano “riscontri esterni, che non possono certamente ravvisarsi nel narrato verosimilmente concordato e comunque incoerente e contraddittorio del compagno attuale e dell’epoca della denuncia”.

Per non parlare della presenza “al fascicolo del giudizio di prove che ne smentiscono il racconto o ne minano ulteriormente la credibilità”. La parola, ora, alla Corte d’Appello, investita dalla parte civile del compito di convalidare o meno gli approdi del Tribunale bresciano. Nessuna impugnazione proviene, invece, dal lato della Pubblica Accusa, che ha chiesto l’assoluzione perché “il fatto non appare sussistere già nella sua oggettività”.