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di Vittorio Manes*


Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2020

 

Il legislatore continua ad attingere a piene mani alla "risorsa scarsa" del carcere, quasi inteso come strumento di "vendetta sociale", con scelte irrispettose di ogni ordine di ragione e, prima e più in alto, del principio secondo il quale la privazione della libertà è legittima solo se limitata al "minimo sacrifico necessario".

Con una sentenza "storica", la Corte costituzionale ha affermato l'irretroattività delle modifiche apportate all'articolo 4 bis dell'ordinamento penitenziario dalla legge n. 3 del 2019, cosiddetta "legge spazza-corrotti", che ha esteso a molti delitti contro la Pa il regime del cosiddetto doppio binario penitenziario, tra le altre imponendo a chi subisce una condanna per reati come peculato, concussione, induzione indebita e corruzione ed altri, un forzoso "assaggio di pena", giacché potrà chiedere l'accesso alle misure alternative solo dal carcere, e solo se saprà offrire - in linea di principio - un apprezzabile contributo di collaborazione all'autorità giudiziaria.

Si era anche recentemente sostenuto che tali modifiche - in linea con l'orientamento giurisprudenziale dominante che ha sempre considerato le norme dell'ordinamento penitenziario sottratte alla garanzia dell'irretroattività - dovessero ritenersi immediatamente applicabili, anche cioè a coloro che avessero commesso il reato in un tempo precedente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Molti giudici, peraltro, hanno sin da subito coraggiosamente contraddetto questa linea: taluni affermando la doverosità di una diversa interpretazione, conforme alla Costituzione e alla Cedu, altri sollevando, appunto, questione di legittimità costituzionale.

La Corte - in una prima decisione assunta l'11 febbraio scorso e depositata mercoledì scorso - ha ritenuto fondati i profili di evidente incostituzionalità denunciati, posti "al cuore stesso del concetto di stato di diritto": abbandonando la tradizionale impostazione formalistica ed estendendo il principio di irretroattività ogni volta che "la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato".

Sono appunto tali le modifiche che - per il tramite della citata estensione del regime di ostatività di cui all'articolo 4 bis - alterano in senso peggiorativo i presupposti di ottenimento dell'affidamento in prova ai servizi sociali, della semilibertà o della liberazione condizionale; ma non - secondo il distinguo accolto dalla Corte - quelle concernenti i permessi premio e il lavoro all'esterno.

Peraltro, sulla base di questa prima decisione, una seconda rosa di questioni di costituzionalità è stata restituita ai giudici che le avevano sollevate (con decisione del 26 febbraio), chiedendogli di valutare la perdurante rilevanza - o meno - nei rispettivi giudizi. Si era infatti da costoro posta in dubbio - in modo del tutto condivisibile - la "ragionevolezza intrinseca" della scelta legislativa di includere i reati contro la Pa nel famigerato catalogo dell'articolo 4 bis, con una scelta che finisce con omologarli ai reati di mafia e terrorismo.

La questione - ancora aperta - è seria e grave, specie se la si analizza al metro - rigoroso - della più recente giurisprudenza costituzionale (da ultimo, la sentenza n. 253 del 2019, sul cosiddetto ergastolo ostativo); e meriterà dunque di essere riproposta.

Sin da subito, forse: anche, cioè, in relazione alle modifiche concernenti gli istituti - come appunto i permessi premio e il lavoro all'esterno - che sono stati sottratti alla garanzia dell'irretroattività, e dunque oggetto di modifiche peggiorative immediatamente applicabili (sempre che, chiarisce ancora la Corte, non fossero già maturati, prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, i presupposti per l'ottenimento di tali benefici, perché a ciò osterebbero, ancora una volta, i principi di eguaglianza e del finalismo rieducativo della pena).

Anche in questi casi, la presunzione legislativa di pericolosità che giustificherebbe il più severo regime - pur ritoccato dalla Corte con la sentenza n. 253 del 2019 - sembra non avere alcun fondamento empirico, e la collaborazione richiesta tanto curiosa quanto inutile: con le conseguenti ricadute in ordine alla (ir-)ragionevolezza del bilanciamento con la finalità rieducativa della pena, un principio mai "sacrificabile" - secondo la sentenza n. 149 del 2018 - a cui proprio permessi premio e lavoro all'esterno sono eminentemente ispirati.

Stupisce non poco, peraltro, che mentre le Sezioni Unite della Cassazione saranno presto chiamate a decidere se nei 3 mq di "spazio minimo disponibile" da garantire ad ogni detenuto debba essere computato (o escluso) lo spazio occupato nella cella dal letto (singolo o "a castello") e dal mobilio - giocandosi ormai la partita del rispetto dell'articolo 3 della Cedu sul filo dei centimetri - il legislatore continui ad attingere a piene mani alla "risorsa scarsa" del carcere, quasi inteso come strumento di "vendetta sociale", con scelte irrispettose di ogni ordine di ragione e, prima e più in alto, del principio secondo il quale la privazione della libertà è legittima solo se limitata al "minimo sacrifico necessario", e solo se impellenti ed oggettive ragioni impongano di preferire il regime custodiale rispetto ad alternative extra-murarie più congeniali all'istanza rieducativa.

 

*Professore ordinario di Diritto penale Università di Bologna