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di Simone Alliva

L’Espresso, 17 settembre 2023

Strasburgo ha deciso per un risarcimento di 52mila euro per danni morali a Maxim Lapunov: “Le prove dimostrano chiaramente che le accuse di gravissime violazioni”. All’Espresso aveva dichiarato: “È un male che ti entra dentro e non esce più”.

“La pelle mi si è completamente staccata. A distanza di sei anni balbetto, ho attacchi di panico. È un male che ti entra dentro e non esce più”. Maxim Lapunov due mesi fa ricordava così, in un’intervista esclusiva a L’Espresso, gli effetti dei giorni dell’orrore. Quelli delle torture inflittegli dai funzionari dello Stato russo per la sua omosessualità. In una stanza di albergo di Milano, il ragazzone russo di origini serbe, ha raccontato di Grozny, della Cecenia e di quel marzo 2017 fatto di unghie strappate e percosse, scosse sui genitali e sedie elettriche.

Oggi la Corte europea dei diritti umani ha condannato la Russia per le torture inflitte da funzionari dello Stato e per non aver impedito e indagato gli attacchi omofobi subiti da persone della comunità lgbt. Finalmente la Cedu ha riconosciuto che i fatti rientrano in una politica di “epurazione” di persone omosessuali o presunte tali nella Repubblica cecena da parte delle autorità locali. Ha evidenziato che Maxim ha fornito un resoconto convincente di quanto subito dagli agenti dello Stato - che i togati di Strasburgo qualificano come tortura - e che il Governo non ha confutato. Inoltre critica come “gravemente carente e priva di indipendenza” l’indagine svolta dalle autorità russe per accertare la verità. Ora Mosca dovrà risarcire a Lupunov 52 mila euro per danni morali. Troppo tardi, troppo poco.

Maxim non potrà più ritornare in Russia, vive in un luogo segreto, la sua sopravvivenza, come ha raccontato lui stesso, è il risultato di una serie di coincidenze: l’essere un cittadino russo, soprattutto accettato e amato dalla propria famiglia che ha fatto di tutto per rintracciarlo: “Prima di rilasciarmi mi hanno forzato a toccare e imbracciare delle armi. Adesso le mie impronte digitali sono lì. C’è un report che mi accusa di omicidio. Un falso reato costruito a hoc, così se provo a denunciare o a tornare in Cecenia rischio la morte. Mi hanno liberato dopo due settimane. Durante quelle notti ho promesso che avrei fatto una cosa se fossi sopravvissuto: avrei sposato il mio compagno”. Lo ha fatto ad agosto. Da qui riparte con una nuova vita. La Cedu, intanto, ha condannato la Russia anche per l’aggressione subita da delle persone lgbti tra il 2012 e 2013 mentre partecipavano a manifestazioni autorizzate e il fatto che la polizia non è intervenuta per impedirli. La Corte rileva, in particolare, che le autorità non avevano adottato misure efficaci per prevenire gli attacchi motivati dall’odio, e che le autorità inquirenti avevano ripetutamente respinto le accuse dei ricorrenti di motivazioni omofobiche dietro gli attacchi. La Cedu “osserva con grande preoccupazione che questa sembra essere una pratica comune nel trattare i crimini d’odio contro le persone lgbti in Russia”.

Un balsamo momentaneo per la comunità Lgbt russa, mentre la mattanza continua, come raccontano i volontari di Crisis Group “Nc Sos”, l’organizzazione che dal 2017 aiuta la comunità Lgbt del Caucaso del Nord (tra queste la Cecenia) inserita nel registro degli “agenti stranieri”, la lista di oppositori che Mosca ritiene ricevano sostegno dall’estero. “Non c’è un numero esatto di morti. Molti vengono restituiti alle proprie famiglie affidandosi all’arma antica e brutale del delitto d’onore. Facciamo di tutto per salvare queste persone ma il Paese è avvolto in un silenzio disumano. L’Europa non continui a scegliere l’indifferenza”.