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di Luigi Manconi

La Stampa, 18 settembre 2022

La definizione adottata dalla risoluzione del Parlamento europeo a proposito del regime ungherese di Viktor Orbán è nitida e tagliente: “Autocrazia elettorale”, ovvero un sistema costituzionale in cui si svolgono le elezioni ma dove manca il rispetto di norme e standard di democrazia. L’elenco delle aree di quel regime politico, dove è in atto una torsione autoritaria, è puntuale e non breve: il funzionamento del sistema costituzionale e di quello elettorale, l’indipendenza della magistratura, la corruzione e i conflitti di interesse, la protezione dei dati personali, la libertà di espressione e di stampa, quella accademica e di religione e di associazione, i diritti delle persone appartenenti a minoranze, quelli dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati e quelli economici e sociali. La risoluzione è stata approvata a maggioranza con il voto favorevole dei parlamentari di Forza Italia e con quello contrario dei gruppi di Fratelli d’Italia e di Lega. Come mai, a distanza di appena dieci giorni dal voto del 25 settembre, e mentre Giorgia Meloni e Matteo Salvini si sbracciano per giurare sulla propria affidabilità come possibili leader di governo, si è verificata questa ostentata dissociazione rispetto ai principi e ai valori dell’Unione europea e dello Stato di diritto? Come mai, senza nemmeno la foglia di fico di una pudica astensione, si è scelta questa forma di pubblica adesione a un regime “autocratico-elettorale”?

Penso che le ragioni siano molte: la simpatia verso Orbán non è motivata solo dalla dichiarata volontà di “rispettare” le libere scelte degli ungheresi e dall’esigenza tattica di creare uno schieramento alternativo a quello socialista-popolare: e nemmeno dal tentativo di sottrarsi al “pensiero unico” liberal-democratico che dominerebbe l’Europa. No, il favore costantemente espresso nei confronti della “democratura” ungherese nasce, innanzitutto, dalla condivisione profonda delle opzioni culturali e valoriali che ispirano l’ideologia di Fidesz, il partito del primo ministro magiaro. E c’è un episodio recente che mette a nudo - come un rimosso che sovviene o un soprassalto dell’inconscio delle istituzioni - quella comune concezione del rapporto tra cittadino e Stato.

Qualche giorno fa è entrato in vigore in Ungheria un decreto che impone alla donna che voglia accedere all’interruzione di gravidanza l’obbligo di ascoltare il battito cardiaco del feto. Non è solo l’espressione di una idea macabra di un atto della volontà femminile e nemmeno la manifestazione penitenziale di un esercizio di libertà, ridotto ad auto-mortificazione e ad auto-riprovazione. C’è qualcosa di più: l’idea di una “democrazia del senso di colpa”, dove il sistema delle libertà e dei diritti non corrisponde alla piena realizzazione di sé, all’affermazione dell’autonomia individuale, a spazi più ampi di emancipazione sociale e all’accesso a maggiori risorse di identità e intelligenza. La democrazia del senso di colpa è il sistema dove tutte le conquiste non solo richiedono fatica - come è normale che sia - ma vengono fatte pagare a caro prezzo ed espiare; e dove ogni diritto è sempre precario e revocabile. In altre parole, un regime dove la libertà non è la massima espansione delle capacità umane e dove i diritti non sono il riconoscimento di tutte le articolazioni della dignità della persona e della sua inesauribile ricchezza, bensì un luogo dove l’ordine e l’autorità devono sempre prevalere sull’autonomia individuale. E, per altro verso, la libertà non è mai felicità e il diritto non è mai affermazione della soggettività contro ogni tirannia. È questa l’idea di democrazia coltivata da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini? Se interpellati, i due negherebbero: ed è assai improbabile che una loro possibile vittoria elettorale porti all’introduzione in Italia di un regime ispirato a quella concezione punitiva della democrazia. Ma, allo stesso tempo, è probabile che si moltiplicheranno, e avranno qualche effetto, i tentativi di piegare la cultura politica e la mentalità collettiva del nostro paese in quella direzione. Quando Giorgia Meloni dice di non voler modificare la legge 194, ma che sarà assicurato “il diritto di non abortire» e che si darà “un’alternativa alle donne che abortiscono per motivi economici», sta trasmettendo un messaggio preciso: la legge 194 non consentirebbe “un’alternativa» all’aborto. Dunque, oggi, l’interruzione volontaria di gravidanza sarebbe, per la donna, una scelta come un’altra e una soluzione deresponsabilizzante, tanto più se affidata al metodo della Ru486 (“la pillolina”, come la definiscono beffardamente alcuni cretini).

La finalità è la stessa che ha suggerito il decreto ungherese: acuire il carattere di trauma sempre rappresentato dall’interruzione volontaria di gravidanza e renderlo più drammatico (quasi non lo fosse già di per sé). Ma la democrazia del senso di colpa, ovvero il sistema politico del rimorso e dei diritti ridotti a facoltà fragili, è strutturalmente illiberale, in quanto viene indotta ad affidarsi a figure forti e a meccanismi autocratici per sottrarre i cittadini a uno stato di ansia collettiva e di depressione sociale.