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di Massimo Donini

Il Domani, 16 marzo 2024

C’è una tradizione consolidata che teorizza il primato assoluto della forza dei numeri e dei voti su quella delle regole. Tanto più se quei voti possono cambiare quasi tutte le regole. Oggi quell’idea serpeggia nell’azione dell’esecutivo di destra-centro. Nel panorama riguardante il controllo sulla politica da parte della magistratura e la libertà della politica da indebite invasioni di soggetti non “legittimati” dal voto democratico, occorre ripensare il tema del primato della politica sul diritto, o quello opposto del diritto sulla politica, che sembra interessare qualche élite colta, ma non la massa dei votanti. Non si tratta di una esercitazione accademica. Mentre la declinazione dello scontro politica-magistratura appartiene ai momenti più accesi della discussione quasi quotidiana, la presenza di un diritto forte o autonomo, capace di resistere alle avventure della politica dei partiti, è un dato di secondario interesse: se il potere politico può cambiare tutte le leggi, compresa la Costituzione, appare necessariamente più forte e in definitiva superiore ad essa. Il diritto, allora, risulta servente, una tecnica e quasi uno strumento della stessa politica. Il giurista (e il giudice) commenterà, applicherà, eseguirà e, in definitiva, obbedirà. Certo alcuni limiti esistono, e sono costituzionali o sovranazionali, oppure sono costituiti dalle leggi che non siano ancora state cambiate e che, finché rimangono, riducono e orientano il potere politico, il quale oggi deve sempre attuarsi in forma legale, nello Stato di diritto. C’è soprattutto una trama ordinamentale, nazionale e sovranazionale, di vincoli, scritti nelle Carte dei diritti, o nella giurisprudenza delle Corti supreme, capace di rappresentare un corpo normativo che non contiene comandi, come avviene nel caso delle leggi, ma le ragioni che spiegano le leggi e i loro limiti, che sono limiti del potere che si ancorano su principi per lo più scritti o reinterpretati da quelle sentenze o sul contributo della cultura giuridica. È il diritto come ius, non come mero comando, è la razionalità del diritto e della legge, non la legge come imperativo.

Ciò premesso, veniamo alla attualità, rappresentata dal sotterraneo avanzare di una cultura di destra che afferma il primato della politica sul diritto. Può dare fastidio ad alcuni ammettere che la destra possa avere una cultura, anziché conoscere solo una prassi, o il primato della azione. Ma sorvoliamo su questi pregiudizi. Limitiamoci a una registrazione del reale. Esiste una tradizione consolidata, nelle dottrine politiche, che teorizza la pratica del primato assoluto della forza dei numeri e dei voti su quella delle regole. Tanto più se quei voti possono cambiare quasi tutte le regole o la loro interpretazione. Oggi quella cultura serpeggia dentro alla prassi del governo di destra-centro. Essa comincia con la esaltazione di un garantismo anti-magistratura, costruito sugli errori giudiziari (tanti) e sui processi a politici e amministratori pubblici e privati, processi che hanno bloccato o distrutto carriere e imprese.

Questo neo-garantismo è arricchito da riforme che non interessano il penale del carcere, ma quello dei colletti bianchi o di chi resta socialmente incluso o integrato, e si accompagna a una controriforma giudiziaria, declinata mediante una certa lettura della separazione delle carriere. Raggiunta una certa normalizzazione e delegittimazione di una parte della magistratura penale (che ha dato causa a tutto ciò), si sono costruite le ‘basi’ per una svolta politica nei rapporti con il diritto come limite all’azione dei partiti, almeno nei settori più nevralgici del controllo penale sulla loro attività. Il diritto deve essere servente rispetto alla legge e dunque a chi l’ha votata o si appresta a farlo. I giuristi, singolarmente scelti e chiamati in passerella in commissione o nelle audizioni parlamentari, fanno bella mostra di sé, e questa lusinga è utile per capire come aggirare le loro generose osservazioni. Se intervengono pubblicamente con argomenti tecnici, li seguono cinque lettori, e non ottengono nessuna risposta, in quanto non hanno né audience, né voti. In parallelo, si espongono unilateralmente nei media di maggiore diffusione i profili più populisti delle scelte da adottare. Sempre a fianco delle discussioni oligarchiche più argomentate, si adottano provvedimenti di risposta immediata ai fenomeni: se c’è un particolare omicidio o una violenza o un pericolo collettivo, si inventa una nuova norma speciale che si aggiunge alla tutela già esistente, per rispondere alle richieste di protezione o di reazione all’evento accaduto. Con un accrescimento del tutto inutile e dannoso delle regole, lungo una spirale che potrebbe solo essere interrotta da un fermo legislativo di qualche anno o da una riserva di legge rinforzata per approvare le leggi penali. A questo punto, messe in cantiere o in opera riforme di garanzia processuale apparentemente rivolte verso tutti, ma in realtà più utili ai potenti (agli intercettati o ai sindaci, agli evasori “buoni” etc.) che ai diseredati destinati al carcere, la normalizzazione può cominciare. È soft questa destra. Non cerca mai lo scontro duro, ma buoni intenditori.

Il magistrato che si appella a fonti sovranazionali, o reinterpreta le leggi in senso divergente dalle politiche desiderate, può essere occhiutamente osservato e censurato nella sua vita privata, oggetto di dossieraggi mirati (ma forse lo era da tempo, e non lo sapeva nessuno); i procedimenti disciplinari e le ispezioni ministeriali si minacciano o si attuano con maggior facilità. La burocratizzazione della magistratura è in fase avanzata. Hanno ottimi stipendi. Che si godano la vita privata! Se il magistrato è burocrate, deve solo fare scelte tecniche. Il diritto non è, allora, cultura, ma è tecnica del potere. La cultura sta fuori e accanto, nei convegni, non nel processo. Rinasce il tecnicismo giuridico, che fu la scuola di pensiero dominante durante il Ventennio e a lungo durante la Repubblica, prima che si scoprisse la Costituzione.

Qualora ritornasse uno stylus curiae troppo critico si potrebbe anche riformare la Costituzione o la Corte costituzionale, se necessario, non solo in vista di un nuovo premierato. Ma forse non è neppure necessario, in questa nuova melassa. La stampa si può addomesticare, perché ha fatto troppi processi massmediatici. Ci sono poi eventi collettivi che creano consenso. Panem et circenses. E infine tutti a far festa a qualche cerimonia che ricompatti l’unità nazionale.

Qui ritorniamo al tema di partenza. Questa destra ha posto le basi per un clima generale che consenta di mettere in discussione la stessa esistenza dei limiti che il diritto pone alla legge e alla politica. Il fatto è che quei limiti, da sempre, non sono mai stati tanto ampi o rigidi. Veramente un governo che possa durare una legislatura è in grado di operare evitando molti ostacoli. Se si disinnesca il ricatto giudiziario, il rischio penale, la strada è libera: il depotenziamento delle intercettazioni, delle inchieste possibili per abusi d’ufficio o traffico di influenze, una certa riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, la normalizzazione e burocratizzazione della magistratura, sono premesse fondamentali dell’operazione. Altre probabilmente ne seguiranno.

A questo punto dobbiamo spiegare in che cosa consiste veramente il primato della politica sul diritto. Esso significa che i giuristi sono subordinati e serventi, strumenti tecnici del potere politico. Dato che il problema più grave degli ultimi quarant’anni almeno a livello internazionale, salvo che nei regimi autoritari, è la crescita del potere giudiziario quale fattore di controllo della politica, unitamente alla necessità che ogni governo agisca secondo provvedimenti legali, come tali sottoposti a quel controllo, rendere serventi i giuristi è atto rivoluzionario. La loro normalizzazione significa indebolire l’orientamento costituzionale al diritto, spuntare le armi della critica alla legislazione attraverso le fonti sovralegislative, ricondotte a programmi della stessa politica, non a regole cogenti; significa che la Corte costituzionale, diversamente composta, conoscerà nuove stagioni di ossequio acritico; che il nazionalismo dispiegato attenuerà di molto ogni verifica di tipo europeista. Rinasceranno nuove figure di giuristi molto formalisti, risorgerà il garantismo dei potenti, che da tempo è di nuovo in attività. E alla fine sarà chiaro a tutti che prima di interpretare la legge occorre ascoltare chi l’ha emanata: può risorgere l’interpretazione c.d. soggettiva, che guarda alla volontà del legislatore storico, ai modelli originalisti d’oltreoceano. E via discorrendo. Tutto questo è cultura di destra, ed è quanto ci aspetta se non cominciamo a capire dove soffia il vento. Si noti, però, che le regole e le prassi che vengono così abbandonate e trasformate non erano “di sinistra”, ma espressione dello Stato di diritto. È in atto un mutamento occulto della forma-Stato.