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di Montesquieu

La Stampa, 12 ottobre 2023

Nemmeno l’azione della barbarie contro Israele, alla ricerca di un impossibile primato dell’orrore infinito, distoglie la nostra politica dalle sue mediocri, autoreferenziali schermaglie domestiche. Quella in atto da giorni tocca, al livello proprio della nostra politica, un tema, più ancora un principio, fondamentale per ogni organizzazione che voglia dirsi democratica: la terzietà di funzioni come quella arbitrale, giurisdizionale, amministrativa, funzionali alla correttezza e alla regolarità del confronto democratico. Tema che oggi viene dalle forze di governo buttato sul campo con riferimento alla funzione giurisdizionale, che non a caso la Costituzione responsabilizza del dover essere uguale per tutti. Politica compresa, se non in testa. Giustizia e funzioni istituzionali, il baluardo del rispetto reciproco e del potere diffuso. Tema che rasserena, al contempo, per la rappresentanza suprema proprio di terzietà che viene, quotidiana e oramai da lungo tempo, dal colle più alto, non solo morfologicamente. Suprema, oramai, anche per indiscussa e sempre più percepita e percepibile consapevolezza diffusa (confortante replica popolare al populismo dilagato per l’inettitudine dell’offerta politica): ma legata al momento ad una persona, non già ad una condivisa garanzia che venga dalla maggioranza delle forze politiche. Ne da inquietante testimonianza l’insistito indirizzo di modifica costituzionale che da questa maggioranza promana, con l’evidente volontà di sostituzione di quel potere oggi sicuramente terzo con altro potere potenzialmente divisivo; e con contestuale dubbio sull’apprezzamento, da parte di una coalizione che si sente prospetticamente vincente, di una guida sul modello in atto. Per inciso: la complessità del tema della terzietà, su cui ci vorranno ben altro spazio e ben altra occasione di approfondimento, non si presta al semplicismo di facili certezze. Quale quella, diffusa, che vuole la terzietà legata ad assenza di forti convinzioni politiche, travolta dalla attestata, esemplare terzietà del capo dello Stato: se non agevolata da una lunghissima militanza politica di parte, certamente compatibile con la stessa. Forse addirittura in reciproca sintonia, purché accompagnate da lealtà istituzionale, orgoglio personale, senso della funzione e dell’interesse pubblico.

Ma certamente non replicata da altre figure di quasi altrettanta richiesta terzietà, quali i vertici delle Camere, specie se investiti del ruolo di supplenza. Perfettamente sovrapponibili, le figure delle prime due cariche dello Stato, per consolidata militanza politica, seppure in opposti schieramenti.

Torniamo a capo, alla terzietà negata al giudice responsabile di una sentenza sgradita alla coalizione che guida il paese. Legittimamente negata: non fosse per i motivi addotti, del tutto estranei al livello giuridico della questione, ed ancorati ad una esasperata ricerca di scollegate espressioni di convinzioni di parte. Nel merito, del tutto pretestuose: ed è questo il limite della politica. Psicologicamente non banali, invece, per chi viva la politica come ricerca di plauso e consenso: ma condivisibili per chi condivide la convinzione pertiniana (uomo di parte assoluta) che la terzietà non sia piena senza l’apparenza della stessa. La terzietà è anche autocontrollo e disciplina di sé.