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di Natalino Irti

Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2022

Un giovane straniero, accusato di lieve furto, si dà morte nel carcere. Un uomo privato di libertà, e dunque offeso nella sua corporea fissità; imputato, e perciò non ancora giudicato, non ancora accertato colpevole e responsabile di delitto.

Quella morte intristisce l’animo del cittadino e la mente del giurista. Si domanda il cittadino se l’impossessarsi di piccole cose, misere di valore economico, esiga la forma più dura e crudele di difesa sodale. Si domanda il giurista se nonne della Costituzione non ne siano vulnerate e tradite: la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva; la destinazione rieducativa della pena. E soprattutto s’interroga intorno a un diritto penale, ancora fermo e saldo nelle sanzioni restrittive della libertà personale.

Dove la pena sembra identificarsi e interamente coincidere con la perdita della libertà. Questa identificazione separa e isola il diritto penale dall’unità dell’ordinamento giuridico, che, per dir così, è accantonato e messo da parte in sue diverse e varie regioni. Deve pur replicarsi che, se il fatto è commesso in violazione di una norma, esso ha carattere di illiceità rispetto a tutto l’ordinamento, dal quale, nella sua unità e molteplicità, giungerà la risposta.

Domanda e risposta, illecito e sanzione, non appartengono soltanto al diritto penale, e perciò non soggiacciono alla perversa identificazione tra sanzione e perdita della libertà. Si vuol dire - e si dice e insegna da maestri, italiani e stranieri, dello stesso diritto penale - che la risposta unitaria dell’ordinamento può consistere, e deve consistere, soprattutto in sanzioni di altri campi: civile, amministrativo, fiscale, e così seguitando.

L’asse del diritto penale va spostato verso sanzioni diverse dalla restrizione fisica. Viene bene osservato da autorevole studioso tedesco, cattedratico in Francoforte, Klaus Liiderssen, nel saggio intorno a “Il declino del diritto penale” (che abbiamo in Italia per la cura di Luciano Eusebi), come “il diritto e la procedura penale, in linea con una malintesa tradizione, assumano (congiuntamente) compiti che in realtà attengono in via primaria ad altri settori del diritto, vale a dire, soprattutto, al diritto (e al processo) civile”.

La funzione rieducativa, assegnata alla pena nel fondamentale articolo 27 della Carta (norma vincolante per il legislatore ordinario e per interpreti pratile teorici), contiene, essa stessa, un programma di “politica criminale”.

Se rieducare non è trattamento medico, né terapia di violenza conformatrice, ma ardua riscoperta di consapevole libertà, onde all’uomo è dato di scegliere fra le molteplici possibilità di vita, allora la ‘politica criminale’ deve orientarsi verso un impiego limitato e accorto della restrizione fisica. La quale diventa così una sanzione eccezionale, legata al giudizio di condanna per reati ai quali il sentire comune riserva, nella sua insopprimibile mutevolezza, la risposta più grave.

Il carcere, questo che, per il giovane straniero e per altri fratelli senza speranza, è luogo di morte, assume la funzione più alta del rieducare, dove non si giudica, ma si comprendono e ripercorrono le singole storie; dove il magistrato cede al pedagogo.

L’art. 27 della Costituzione, nella sua generale e vincolante positività, sta oltre ogni disputa di scuola e dibattito filosofico. Esso d reca, e impone, l’immagine dell’uomo rieducabile’, e quindi suscettibile di mutamenti spirituali e di più avvertita libertà, e non di un essere stretto da deterministica necessità. L’alternativa tra libero e servo arbitrio è un capitolo storico, chiuso nei grandi e lontani nomi di Lutero ed Erasmo, e nell’urto dottrinario tra scuola positiva e scuola classica.

La parola “rieducazione” genera di per sé una visione della libertà: dell’uomo, che si costruisce a mano nel cammino terreno, ed esercitala facoltà di scelta tra le possibilità di vita. Taluna possibilità è vietata dal diritto, e così ne nasce la sanzione rieducativa, cioè volta a più alta consapevolezza, a più profonda capacità di scelta Sanzione, che soltanto eccezionalmente s’identifica con la perdita della libertà fisica, e, in linea generale e ordinaria, si giova di ogni risorsa affittiva dell’ordinamento, quale offerta da tutti i rami del diritto (civile, amministrativo, fiscale, e così seguitando).

Il morire in carcere è dolorosa e triste lezione, da ascoltare con animi partecipi e volontà costruttive di un altro diritto penale. Oggi abbiamo, e, come cittadini e giuristi, non possiamo non avere, il saldo punto d’appoggio nella nonna costituzionale, la quale appunto ci “costituisce” nel nostro duplice ufficio e nella nostra solidale responsabilità.