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di Paolo Di Stefano

Corriere della Sera, 5 marzo 2024

Pochi giorni fa Save the Children ha lanciato l’allarme: ne uccide più la mancanza di cibo che le armi. Da Gaza ci arrivano notizie sui morti per fame. Abbiamo visto tutti la corsa disperata ai soccorsi alimentari. Pochi giorni fa Save the Children ha lanciato l’allarme sulla fame diventata arma di guerra: ne uccide più la mancanza di cibo che le armi.

Su come si esprime un bisogno fondamentale, l’esigenza di avere da mangiare nei momenti tragici della storia, ha scritto Leo Spitzer, un famoso linguista austriaco, quando nel 1920 pubblicò un libro straordinario tradotto per la prima volta dal Saggiatore nel 2019. Si intitola Perifrasi sul concetto di famee riporta le lettere in cui i prigionieri italiani imploravano i parenti di mandare alimenti. Durante la Grande Guerra Spitzer aveva lavorato a Vienna nell’Ufficio della censura postale e da quella posizione poteva intercettare la corrispondenza (certi passi sulla fame che avrebbero danneggiato l’onore austriaco andavano tagliati). La sera lo studioso si intratteneva a ricopiare quelle lettere e le pubblicò a guerra conclusa.

Erano per lo più scritte da semianalfabeti che si ingegnavano con espressioni spesso in codice, per lo più sgangherate e striate di venature dialettali. È un’antologia della disperazione da fame in guerra. Chi scrive che “il ventre non tira troppo”; chi invoca i familiari a Milano di mandare “pane pane pane che qui non mi sassia mai l’appettito”; chi da Chieti vorrebbe cicoria; chi si accontenterebbe di “un po’ di formaggio”; chi segnala in piacentino che “qui la catolica ce sempre da per tutto” o che “la cattolica batte forte”. La “cattolica” in gergo era, appunto, la fame, forse per affinità con l’idea della vita da mendicanti. Dicevano allora che gli italiani “piagnoni” cercavano di impietosire i loro parenti al paese, ma la fame in guerra era reale. Oggi chi ha fame non la chiama “cattolica”, guarda il cielo, senza nessuno a cui scrivere.