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di Chiara Dino

Corriere Fiorentino, 15 luglio 2023

Armando Punzo dal 28 è in scena con “Atlantis” insieme con i suoi detenuti del carcere di Volterra. Stavolta ci insegna che si può essere felici stabilmente. Come chi persegue la conoscenza. Può esistere la felicità come stato dell’animo permanente? Non effimero dunque e non causato da interferenze esterne, momentanee e magari casuali?

Da questa domanda, per di più fatta nel carcere di Volterra dove opera e fa teatro da 35 anni Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza parte - dopo 8 anni di ricerca attraverso Shakespeare e Borges lungo un movimento ascensionale che, dai moti dell’anima descritti dal bardo di Stratfordupon-Avon passava al realismo magico del poeta argentino per approdare all’homo felix di Naturae - per portare in scena (dal 28 luglio al 3 agosto, durante un mini-festival che si terrà nella cittadina della Fortezza medicea) la prima tranche di un nuovo lavoro. Questa volta siamo ad Atlantis (un mondo immaginario? ndr) la cui prima puntata si chiama appunto Permanenza.

Punzo, partiamo da lei. È fresco di Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale del teatro di Venezia (il 17 giungo). Emozionato? Contento?

“Sì, beh certo. È un grande riconoscimento. Trentacinque anni di lavoro per trasformare un carcere noto per condizioni di vita difficili, anzi difficilissime, a un luogo che è modello per altri non sono stati vani. Un riconoscimento come questo non va solo a me. Ma all’utopia della Compagnia della Fortezza, che ha creduto fortemente nella possibilità di trasformare un luogo di detenzione nato per sopprimere la libertà, in un terreno di coltura per questa stessa libertà. Questo premio mi dice e ci dice che le utopie sono possibili. E questo ha molto a che fare con il nuovo spettacolo”.

Atlantis - Capitolo 1 La permanenza, sua la drammaturgia e sua la regia. Ce ne parla?

“Dopo 8 anni di progetto legato a Naturae, dopo aver conosciuto attraverso questo progetto-spettacolo, i moti dell’animo dell’uomo anche più bassi e aver cercato di trovare la felicità, adesso lavoriamo su un progetto drammaturgico che vuole ipotizzare questa stessa felicità come una condizione permanente”.

E funziona? È possibile essere stabilmente felici?

“C’è un approccio diciamo infantile alla vita che ci dice che sì, è possibile, frequentare questo stato d’animo stabilmente. Ed è lo stesso approccio che hanno alcuni personaggi della storia - del pensiero e della scienza - che hanno creduto nelle utopie. Che si sono continuati a porre domande. Hanno voluto progredire nella conoscenza e hanno scoperto cose incredibili”.

Seguo la sua traccia. Dunque felicità e conoscenza se non sono proprio sinonimi hanno delle parentele strette...

“In un certo senso sì”.

Come si traduce questo nello spettacolo?

“Venite a vederlo”.

Ci dia qualche istruzione per l’uso...

“Immaginate Lui. Lui come personaggio astratto e molto reale. Lui come me e come i circa 80 attori/detenuti di Volterra che partecipano al progetto, lui come ciascuno di noi che si confronta con grandi personaggi. Per il momento stiamo interrogando Galileo, Leonardo, Burroughs, Einstein, ma anche artisti come Fontana, o i primi esponenti dell’astrattismo. Stiamo leggendo Bloch e il suo libro, immenso, che s’intitola Il principio speranza, e che ci invita a non perdere mai di vista l’utopia, a coltivare la speranza e a non fermarsi al dato di realtà troppo spesso paravento di chi non vuole mettersi in gioco. Stiamo studiando I quattro maestri di Vito Mancuso (Socrate, l’educatore. Buddha, il medico. Confucio, il politico. Gesù, il profeta ndr.) tutti portatori di una utopia che non si riesce a mettere in pratica fino in fondo, per cercare il quinto maestro. Questa volta non vogliamo neanche portarla in scena la parte negativa dell’uomo. Vogliamo altro”.

Un lavoro immenso ma bellissimo. Lei, Punzo, può dirsi felice?

“Direi di sì. Quello che faccio mi rende felice”.

E chi lavora con lei, in carcere, chi è detenuto, come reagisce di fonte a chi, come lei, parla loro di felicità in un luogo come quello?

“Alt. I detenuti non sono loro. Sono io, te, persone, ognuna diversa, c’è chi è interessato a quello che dico e che facciamo e chi non lo è. A questo progetto, per dire, partecipano in 70/80 circa. Chi non se la sente semplicemente non partecipa”.

A proposito di utopie. A che punto è il progetto del Teatro Stabile di Volterra?

“È pronto il progetto di fattibilità. Aspettiamo il parere della Soprintendenza. A fare il teatro sarà l’architetto Mario Cucinella, ci vuol pazienza ma andiamo avanti”.

Appunto, pazienza: lei da 35 anni si è auto-recluso in carcere. Tutti i giorni dalle 9 alle 19 e anche più. Perché e quanta resistenza trova alla sua utopia?

“Mi sono “chiuso” in carcere, come dice lei, per svelare a me stesso le mie prigioni interiori. Quanto alle resistenze ne trovo molte. Ma da tutti, dal sistema che è fatto non solo di detenuti ma da tutti noi che consideriamo le prigioni un buco nero, e questo vale anche per chi ci lavora. Ribaltare questo assunto è utopia. Ma lei lo sa che spesso chi crede nell’utopia è considerato un cretino?”.

Chi crede in qualcosa in generale è considerato un sempliciotto. È vero...

“Appunto. Ecco perché è stato così importante il Leone d’Oro. Ribalta questo assunto”.

Andiamo un po’ più indietro nel tempo. Ma lei com’è che ha scelto il teatro?

“Guardi, ho iniziato a fare teatro sin dal primo anno di Università. Studiavo lingue all’Orientale e non mi piaceva nulla di quello che avevo attorno, anche se la mia era una famiglia normale, perbene. Ma non ero felice. E volevo provare a esserlo”.