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di Gian Antonio Stella

Corriere della Sera, 21 ottobre 2023

La “verità” costruita di volta in volta dagli opposti apparati della propaganda finisce sempre per allontanare la possibilità di giungere ad accordi di pace. “Attenzione: maneggiare con cura”. Mai come oggi la scritta stampata sulle casse di tritolo dovrebbe ispirare le notizie sulla guerra. Cos’è successo all’ospedale Al-Ahli di Gaza? È stato “distrutto” o è ancora in piedi? Perché i “471 morti” non vengono ostentati da mille foto? Di chi è stata davvero la responsabilità? Insomma: di chi ci si può fidare? Meglio andarci cauti, dice la storia. Perché, ammonì Francis Bacon, “l’uomo crede più facilmente vero ciò che preferisce sia vero”. E la verità è sballottata da opposte propagande.

È sempre andata così. Nei secoli. Da quando Licomede di Mantinea, come racconta Senofonte nelle Elleniche eccitava alla guerra gli Arcadi “affermando che erano gli unici a poter considerare il Peloponneso la loro patria perché ne erano gli unici abitanti autoctoni” fino alla distruzione nel giugno scorso della grande diga Kakhovka imputata dai russi agli ucraini e dagli ucraini ai russi, la verità cristallina, assoluta, incontestabile è sempre stata contestata tra diverse “verità” contrapposte. Spesso senza neppure la pretesa di essere, scusate il bisticcio, veritiere. Basti pensare a una copertina della Domenica del Corriere del 9 gennaio ‘44 quando, sotto il tallone della Repubblica di Salò e dei nazisti, c’era l’immagine di soldati americani che strappavano i figli dalle braccia delle madri con la dida: “Sta per partire dal porto di Siracusa il primo scaglione di bimbi italiani prelevati dalle terre italiane invase e destinati ai cosiddetti istituti di educazione della Russia senza Dio”.

Era un’assurdità del tutto “incredibile”? Così è fatta, l’Arma della Persuasione, cui Gorizia dedicò nel 1990 una mostra straordinaria. E quando è martellante, spiega Massimo Chiais in Menzogna e propaganda. Armi di disinformazione di massa (Lupetti editore) raccontando come gli americani furono spinti a entrare in guerra nel 1917, può essere incendiaria. Al punto che il cronista Raymond Fosdick avrebbe scritto in un articolo su un’assemblea di fedeli cristiani: “Uno degli oratori chiese che il Kaiser, una volta catturato, venisse lessato nell’olio bollente e l’assemblea al completo salì sulle sedie per urlar la sua isterica approvazione. (...) Questo era il genere di follia che si era impadronita di noi”.

Furono un delirio, le diverse versioni della “nostra” Grande Guerra, riassunte in due vignette: la prima (“telegramma da Parigi”) mostrava il gallo francese trionfante sull’aquila germanica, la seconda (“telegramma da Berlino”) l’aquila germanica trionfante sul gallo francese. I nostri nonni disegnavano l’imperatore Francesco Giuseppe come un porco che grugniva, i tedeschi gettavano dall’alto volantini con scritto: “Soldati italiani! L’assalto a tradimento alle spalle degli alleati di ieri è immorale... La Provvidenza Divina punirà ogni singolo di voi...”. Al che sui giornali di trincea come La Voce del Piave uscivano pezzi tipo questo di D. De Miranda che descrivevano i tedeschi così: “Come miriadi di cavallette furibonde per fame essi offuscarono la luce. Nel profondo buio pauroso creatosi per le ingenti orde sempre sopravvenienti, nel lezzo di cose incadaverite, emanantesi dai loro corpi immondi, nello squallore rosso di incendi interminabili, nella mostruosità, non più umana, dell’avidità sconfinata di sangue e di ferocia, Unni, Attila, Barbarossa, fu il loro nome...”.

Odio c’era, tra noi e loro. Un odio che pareva insanabile: “I loro cervelli nutriti di sangue sgorgante da corpi puri sgozzati per essere da essi divorati... La loro crudeltà si è rallegrata nel grido straziante di bimbi che elevano al cielo i moncherini sanguinanti... Nel rossor pieno di lacrime di fanciulle condannate a partorire mostri...”. Parole che a rileggerle oggi, della nostra Europa dai confini di seta a dispetto dei tempi funesti, mettono i brividi. Il Financial Times del 10 giugno 1915 ad esempio, cita ancora Chiais, “non si faceva specie di riportare che il Kaiser aveva “personalmente ordinato di torturare bambini di tre anni, specificando i tormenti da infliggere”“ per non dire di “fonti non precisate secondo le quali i tedeschi avrebbero tagliato le mani ad un bambino aggrappato alla gonna della madre”. Oscenità poi “perfezionata” da La Rive Rouge che pubblicò un disegno “che ritraeva i tedeschi nell’atto di mangiare le mani mozze del povero bambino”. Falsi? Ci scommetteremmo la testa. Come quello fatto girare tanti anni dopo in Vietnam: “I Vietcong si sarebbero recati nei villaggi dove gli statunitensi vaccinavano i bambini, tagliando loro il braccio vaccinato”.

Se ne infischia, chi è in guerra (come Bibi Netanyahu quando buttò lì nel 2015 che “fu il mufti palestinese negli anni Trenta, Haj Amin al-Husseini, a persuadere Hitler della necessità di sterminare gli ebrei” o come oggi il leader della jihad islamica palestinese Ihsan Ataya quando sostiene che “la nostra religione non accetta che i civili vengano uccisi”) della “verità” cristallina e condivisa. Gli basta appunto di essere creduto da chi vuol credere alla “sua”. E gli altri? Bah... Esattamente come è accaduto negli ultimi mesi nell’altra guerra ancora aperta. Con gli ucraini da una parte ad esaltare il “Pilota Fantasma di Kyiv”, una specie di Barone Rosso redivivo premiato con una “medaglia postuma” da Volodymyr Zelensky perché capace di abbattere “da solo quaranta aerei russi” e dall’altra Vladimir Putin a sostenere che “l’odierna Ucraina è stata fondata completamente ed interamente dalla Russia”. Vero? Falso? All’una e all’altra parte interessa fino a un certo punto. E questo, certo, non aiuta gli sforzi per la pace.