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di Luigi Manconi

La Repubblica, 14 febbraio 2024

Dopo i casi di tortura a Reggio Emilia, ci si interroga sull’adeguatezza di alcuni poliziotti in ruoli così delicati. Quante ore di formazione sono necessarie per “fare un poliziotto”, che sia rispettoso della Costituzione e delle garanzie e capace, allo stesso tempo, di risolvere i conflitti col minore ricorso possibile all’uso della forza? Dopo la conferma che in un certo numero di carceri italiane - a Reggio Emilia e non solo - viene applicata la tortura risulta inevitabile porsi quella domanda. Insieme a un’altra, di minore spessore ma altrettanto significativa: come può accadere che funzionari dello Stato (membri della polizia penitenziaria), pur sapendo dell’esistenza di telecamere di sorveglianza, abbiano messo in atto quegli orribili “trattamenti inumani e degradanti”? Quegli stessi che un legale della difesa ha definito pudicamente “forse eccessivi”.

Qui, la presunzione di impunità da parte degli agenti oscilla palesemente tra improntitudine e idiozia. Ma la “giustificazione” addotta da uno dei sindacati di categoria aiuta a comprendere meglio la situazione. Si è detto che il detenuto torturato avesse tenuto un comportamento tale da meritare “ben 32 rapporti disciplinari”. Ecco, ciò contribuisce a spiegare come mai attualmente, tra procedimenti arrivati a una prima condanna e indagini tuttora in corso, siano oltre una quindicina gli episodi, avvenuti in altrettante carceri, di vessazione se non di tortura nei confronti di reclusi. In altre parole, si può arrivare a dire che l’uso della violenza costituisca fattore irrinunciabile del sistema di potere che governa l’organizzazione interna di quell’istituzione totale rappresentata dalla prigione. La relazione tra autorità e obbedienza, la struttura gerarchica, il controllo e la disciplina come capisaldi della convivenza coatta tra custodi e custoditi in un ambiente chiuso, dove i rapporti di potere sono affidati alla forza: tutto ciò è attraversato da una inevitabile quota di violenza, spesso contenuta, talvolta dispiegata. Essa non rappresenta una anomalia, ma qualcosa di assai simile a una prassi.

Insomma, in tale contesto il ricorso alla violenza non è una deviazione del comando, bensì una sua prerogativa. Che in genere si manifesta come minaccia ma che in più di un caso si esprime come sopraffazione. Per questo si può immaginare che quei poliziotti penitenziari abbiano ritenuto di fare il “proprio dovere” attraverso un’opera di disciplinamento di un detenuto disobbediente, al fine di ripristinare l’ordine interno dell’istituzione carceraria.

E si torna alle domande iniziali: come può accadere che dieci agenti decidano di torturare un recluso, correndo i rischi che ciò può comportare? Va escluso, ovviamente, che all’interno della polizia penitenziaria si trovi un tasso di personalità sadiche superiore a quello rintracciabile in altri corpi di polizia o nella popolazione generale. Devono esserci, pertanto, altre spiegazioni. Una ricerca, segnalatami da Marino Sinibaldi, può risultare assai utile. Secondo l’Institute for Criminal Justice Training Reform (Istituto per la riforma della giustizia penale), che ha sede in California, il tempo dedicato alla formazione degli appartenenti ai corpi di polizia, calcolato in ore, varia in misura rilevantissima da paese a paese. Alcuni dati: le ore dedicate alla formazione sono 652 negli Stati Uniti, 1.040 in Canada, 2.250 nel Regno Unito, 3.500 in Australia e 4.050 in Germania.

Purtroppo non disponiamo dei dati relativi all’Italia, ma non dubito che il solerte ufficio stampa del ministero dell’Interno provvederà a inviarli alla redazione di Repubblica. Inoltre, la ricerca propone una correlazione tra numero delle ore e numero delle persone rimaste vittime dell’azione di agenti di polizia, che non mi sento di condividere in quanto non adeguatamente motivata e dimostrata. E, tuttavia, è possibile trarre qualche considerazione.

Per formazione si deve intendere sia la dimensione giuridico-politica che quella tecnico-pratica. In altre parole si deve dare per assodato che l’agente di polizia conosca i principi e le garanzie fondamentali dello Stato di diritto e che sia in grado di esercitare la sua funzione di controllo e repressione ricorrendo alla minore quantità possibile di uso della forza. Che non dimentichi mai, insomma, che il fermato e l’arrestato sono, fino a prova contraria, presunti innocenti e che ogni eccesso nel renderli inoffensivi è illegale. Si può pensare che i dieci agenti di Reggio Emilia avessero tale consapevolezza? C’è proprio da dubitarne. Intanto, nei primi quarantacinque giorni dell’anno in corso già 17 detenuti si sono tolti la vita e uno è deceduto a seguito di sciopero della fame. È ciò che può definirsi la normalità della vita carceraria.