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di Luca Bisori*

Il Riformista, 29 giugno 2024

La giustizia riparativa (g.r.) disegna strumenti di ricomposizione della frattura generata dal reato che si definiscono come totalmente altri rispetto a quelli della giustizia tradizionale. Le esperienze comparate confermano l’efficacia di questi strumenti, che debbono perciò essere valutati con intelligente disponibilità, senza indulgere a contrarietà pregiudiziali. La disciplina positiva determina però una rilevante criticità, foriera di potenziali conflitti coi princìpi di garanzia: si prevede infatti l’innesto del percorso riparativo nel processo penale, consentendo così una significativa interlocuzione tra due mondi che dovrebbero restare separati.

Talora questa interferenza può dipendere da una iniziativa dell’imputato, e allora nulla quaestio: si pensi al caso in cui si chiede l’attivazione della g.r. per conciliare un danno non disconosciuto, oppure per far risaltare l’irragionevolezza delle richieste della vittima. Fuori di queste ipotesi, però, un pericolo di contaminazione del libero convincimento del giudice si può generare a valle della possibilità, per il giudice, di inviare l’imputato ex officio ai centri di g.r., così assegnandogli il potere di costringere il giudicabile a ‘prendere posizione rispetto all’accusa’ (in ogni stato e grado del procedimento - dice l’art. 129 bis c.p.p. - l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima al Centro per la g.r., per l’avvio di un programma di g.r.).

In nessun altro caso è consentito al giudice di fare altrettanto: l’esame dell’imputato può essere chiesto solo dalle parti, non può essere disposto d’ufficio, ed è l’unica prova per cui esiste questa limitazione. È sì vero che ogni programma di g.r. presuppone la volontarietà del percorso e che l’imputato deve consentirvi: ma come sarà valutata l’adesione al dialogo con la vittima da parte di chi ha diritto di professarsi innocente e di negare che un fatto illecito sia stato commesso? Potrà essere inteso come disponibilità ad ammettere la colpevolezza? Lo stesso esito positivo del percorso di g.r. potrà essere interpretato come riconoscimento della fondatezza delle pretese della vittima e dunque dell’addebito?

Di tutto questo - se l’imputato consente, come va a finire il percorso etc. - il giudice ‘inviante’ sarà edotto dal mediatore, attraverso apposite relazioni. Il nesso tra adesione alla g.r. e ‘ammissione del fatto’ non è questione astratta, costituisce anzi un aspetto nevralgico della g.r.: la legge italiana, forse proprio per consentire una più forte interlocuzione tra processo e sede riparativa e minimizzarne le criticità, ha omesso di recepire quale presupposto della g.r. la previa ammissione della responsabilità del fatto da parte dell’imputato, che è invece espressamente prevista dalla direttiva europea.

Qui si disvela la coperta corta: se, nella prospettiva ideale che massimizza l’alterità della g.r. al processo, è ragionevolmente indispensabile la previa ammissione del fatto, al contempo è però inammissibile che quel presupposto sopravviva in un sistema che consente al giudice di invitare l’imputato a quei percorsi, poiché diversamente l’invito suonerebbe come sollecitazione ad ammettere la responsabilità. La verità è che il legislatore interno non ha voluto rinunciare alle possibili (ma illusorie) ‘virtù deflattive’ della g.r. (sperando che un po’ di processi siano definiti fuori dai tribunali), e per far ciò ha dovuto snaturare lo strumento, rendendolo un po’ meno ‘altro’ dalla giustizia tradizionale: un pasticcio. Si dirà che l’imputato può comunque rifiutare l’invito del giudice: ma quale imputato resisterà al timore di dispiacere così a chi dovrà giudicarlo ed eventualmente commisurare la pena, riconoscere attenuanti, concedere benefici?

Vi è poi un altro paradosso, determinato dalla previsione di una attenuazione di pena in caso di esito positivo della g.r.: in molte ipotesi la promessa di uno sconto della pena - pur a fronte di una determinazione di principio a difendersi, professando innocenza - può determinare una indebita pressione psicologica sull’imputato, specie se l’occasione per meritare quello sconto dipende da una iniziativa dello stesso giudicante.

I problemi ora descritti verrebbero meno se al requisito della volontarietà si sostituisse quello della spontaneità dell’accesso alla g.r., inibendo al giudice di assumere iniziative rispetto all’invio ai percorsi di g.r., lasciandolo mero fruitore, non anche promotore del percorso riparativo. Solo così egli resterà autenticamente indifferente alle dinamiche della mediazione, di cui potrà semmai giovarsi se le parti, libere da qualsiasi condizionamento, vi avranno aderito, giungendo infine ad un esito positivo.

*Avvocato penalista