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di Andrea Fabozzi

Il Manifesto, 3 ottobre 2023

“Scontro politica-giustizia” è la notizia meno notizia dell’ultimo trentennio. Persino restringendo l’orizzonte all’anno di vita del governo Meloni, le tensioni tra il potere esecutivo e quello giudiziario non sono certo una novità. E va detto che quando le opinioni tra le due parti divergono - dalle intercettazioni alla separazione delle carriere, dalla prescrizione al Csm - non necessariamente i torti sono sempre e solo dalla stessa parte. Diverso e assai più grave è il caso che si è aperto ieri con l’affondo della presidente del Consiglio contro la giudice di Catania e la sua libera decisione sui migranti.

Diverso, ma neppure questo del tutto inedito. C’è infatti un precedente con protagonista Nordio. Il ministro della giustizia, in difficoltà allora per l’evasione di un cittadino russo così come Meloni è oggi in difficoltà per gli sbarchi che aveva promesso di bloccare, se la prese anche lui con un’ordinanza giudiziaria, in quel caso firmata da un collegio di giudici. Inviò gli ispettori a Milano, volendosi sostituire ai normali rimedi giudiziari.

Passati cinque mesi e più, quell’ispezione non ha prodotto nulla e si avvia verso l’archiviazione. Allora come oggi, la magistratura e l’opposizione, ma anche ogni altro osservatore non completamente a digiuno dei fondamentali della democrazia, fanno notare al governo che in regime di separazione dei poteri non è il governo che contesta gli atti giudiziari e mette all’indice chi li firma. Contro una sentenza o un’ordinanza non condivisa, o non gradita, si presenta appello in tribunale più che su Facebook.

Ma questo Giorgia Meloni lo sa benissimo. Ragione per cui il suo attacco di ieri mattina è più grave e pericoloso. La giudice Apostolico nel far decadere il trattenimento dei migranti disposto dal Questore, non ha fatto altro che applicare un consolidato orientamento giurisprudenziale. Orientamento non della corte di Catania, ma della Cassazione e della Corte Costituzionale che risiede in un principio fondamentale: le leggi ordinarie non possono andare in contrasto con la Costituzione e le norme europee. Non è lesa maestà ai sovranisti o esterofilia, come ci raccontano gli attuali governanti, ma la conseguenza dell’essere il nostro paese inserito in una comunità di stati di diritto. Almeno per il momento. L’attacco infatti è indirizzato a Catania ma mira assai più in alto, mira all’Europa.

È una direttiva europea (la stessa alla quale si è falsamente richiamato Piantedosi) a stabilire che chi chiede asilo può essere trattenuto solo in casi eccezionali e ben motivati, e non in maniera automatica. La giudice Apostolico non si è “scagliata contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto”, ammesso che si elegga un governo, come scrive la presidente del Consiglio. Ma ha applicato le leggi, che per fortuna non sono solo quelle che il governo italiano decreta forsennatamente ogni settimana. Ce ne sono di più importanti e sovraordinate. Certo, non sarebbe così se fosse passata la riforma costituzionale che ha proposto proprio Meloni nella scorsa legislatura, quando all’articolo 11 che inserisce l’Italia nelle organizzazioni internazionali voleva aggiungere un comma in cui stabiliva che trattati e direttive dell’Unione si applicano qui da noi solo se compatibili con “il principio di sovranità”.

Il sovranismo come alternativa alla civiltà giuridica europea è allora la chiave per interpretare gli ultimi, scomposti attacchi della destra alla magistratura. È vero che Meloni è cresciuta alla scuola di Berlusconi, ma questa lezione l’ha imparata da Orban e Morawiecki più che dal Cavaliere. Non è il solito scontro tra politica e giustizia.