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di Giovanni Verde

Corriere del Mezzogiorno, 6 giugno 2023

Abbiamo la fortuna di essere informati. I supercritici ci spiegano che anche la nostra informazione è funzionale a interessi più o meno occulti e che è o può essere deviante. Anche se così fosse, qui da noi siamo comunque più e meglio informati di quanto lo siano coloro che vivono in regimi dittatoriali. Mi basta questo per sentirmi dalla parte del mondo dei privilegiati che vivono in democrazia. La quale sarà anche malata, ma è quella che ci garantisce uno stile di vita che non è neppure lontanamente equiparabile alle condizioni in cui vivono le persone là dove esistono regimi di tipi dittatoriale o autoritario; di quelli - per intenderci - in cui si scompare misteriosamente o si va in carcere per il fatto di coltivare ed osare di esporre pubblicamente idee non conformi a quelle del regime (perché, al limite, si è considerati pazzi da curare e, in fin di conti, si finisce con l’esserlo); oppure si è uccisi o si scompare o si va in carcere per non essere vestiti adeguatamente o per coltivare relazioni sessuali “diverse”.

Oppure si è chiamati ad elezioni in cui non è facile stabilire in quale misura i risultati siano il frutto di un reale e libero esercizio del diritto di voto; e così via. Per questa ragione sono vissuto, coltivando la democrazia come il solo idolo al quale prestare fede e, oggi, nella tarda età, mi sento come il trovatore dei tempi antichi che riesce a cantare una sola canzone, fino alla fine dei suoi giorni. È questa la ragione per la quale mi immalinconisce (e mi fa rabbia) che la giustizia o la ricerca della giustizia possa paradossalmente diventare uno strumento per indebolire la democrazia e per minarla. Ciò avviene quando la ricerca della “giustizia” non è mantenuta nei giusti limiti, perché, come segnalai anni fa in uno dei molti miei inutili scritti, di troppa giustizia una democrazia può morire. Al riguardo, il terreno minato è quello della responsabilità. Ad ogni sciagura, si innalzano a volo le Procure che, come corvi richiamati dal tanfo delle carogne, vanno alla ricerca di responsabilità e di responsabili; e ciò perché da noi l’esercizio dell’azione penale è obbligatoria (come si legge nella Costituzione). Tuttavia, quando le responsabilità sono diffuse - in quanto noi cittadini non siamo stati capaci di curare e proteggere il territorio in modo adeguato e non siamo stati capaci di scegliere rappresentanti politici e amministrativi in grado di farlo -, non ha senso andare alla ricerca di quel cireneo di turno su cui addossare la colpa. E questi finisce con l’essere una sorta di “untore” dei nostri giorni che serve ad appagare il risentimento e il bisogno di chi si ritiene vittima ed è egualmente responsabile (e, quindi, nutre soltanto rabbia e desiderio -non di giustizia, ma - di vendetta).

Ho provato grande rispetto e non meno grande ammirazione per gli emiliani e i romagnoli che, nel pieno del disastro, non hanno recriminato (eppure avrebbero avuto ragioni per farlo, perché una cura diversa del territorio avrebbe probabilmente attenuato gli effetti e ridotto i danni dell’alluvione), ma hanno detto: “Non ci piangiamo addosso. Da subito ci diamo da fare per ricostruire, per tornare alla normalità, per produrre di nuovo valore aggiunto. Gli aiuti che chiediamo ci servono e saranno adoperati per rimettere in moto il meccanismo produttivo”. Non ho sentito (scomposte) proteste contro chicchessia e nemmeno richieste di condanne (che sanno tanto di vendetta). E mi ha fatto anche piacere che la Regione si sia ricordata, in tempi di autonomia differenziata, che esiste l’Italia, che è “una e indivisibile”, come vuole il fondamentale e negletto art. 5 della (altrettanto negletta) Costituzione.

Tutto ciò rende manifesto che alla Magistratura, che è responsabile del servizio giustizia, è affidato un compito delicatissimo, che è quello di restare nei limiti di ciò che è strettamente necessario, riconducendo la sanzione penale nel recinto dell’umanamente accettabile e per il quale, nell’esercizio di qualsiasi attività in cui il rischio di sbagliare è alto, una responsabilità per colpa non dovrebbe trovare diritto di cittadinanza o dovrebbe trovarlo in casi limite. La conseguenza di un eccesso di acribia investigativa o di controlli, che trasforma tante indagini in inchieste, paradossalmente è quella di allontanare le persone oneste e capaci (ma non temerarie) dai troppi rischi collegati all’esercizio di funzioni pubbliche.

Di più. È quella di alimentare un culto delle regole, che servono da scudo protettivo per chi opera, che imbavagliano qualsiasi attività nella camicia asfissiante di una burocrazia invadente, oppressiva e, spesso, idiota. La nostra è diventata la Repubblica dei regolamenti (e, purtroppo, lo sta diventando anche l’UE). Avviene, così, che il mondo politico sia tentato di mettere il bavaglio alla magistratura. Trova in questo modo giustificazione la recente decisione del Governo di presentare un emendamento al decreto sulla Pubblica Amministrazione al fine di prolungare di un anno lo “scudo erariale” che limita la responsabilità di amministratori e dipendenti pubblici ai casi di dolo o colpa grave e che esautora la Corte dei conti dalla vigilanza sul Pnrr, abolendo il cosiddetto controllo concomitante dei giudici contabili sull’utilizzo dei fondi del piano. I giudici contabili protestano. Forse, faremmo tutti (insieme con i giudici) meglio a riflettere sul fatto che la democrazia è uno strumento assai delicato, che rischia di continuo di andare in frantumi e che potrebbe davvero andare in frantumi per un eccesso di acribia di stampo giustizialista.