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di ​Alessandro Campi

Il Messaggero, 11 settembre 2023

I sempre più frequenti episodi di giustizia “fai da te” registrati dalla cronaca (l’ultimo nel quartiere romano del Quarticciolo) meritano qualche riflessione oltre la contingenza. L’impressione, infatti, è che non si tratti di fatti occasionali, ma di comportamenti e forme di reazione indicativi di uno stato d’animo collettivo sempre più segnato da un mix irrazionale di rabbia e paura, dal venire meno della fiducia nei confronti delle istituzioni, da un crescente sfilacciarsi dei legami sociali basati sul rispetto delle regole e dalla tendenza a giustificare come legittima la violenza privata che persegue la giustizia pubblica.

Colpiscono, in effetti, le reazioni a questi episodi, specie quando essi vengono documentati - come sempre più spesso accade - da qualche improvvisato cittadino-reporter armato di videocamera. Centinaia di migliaia di visualizzazioni, immagini che rimbalzano da un telefonino all’altro, ma soprattutto messaggi di plauso e incitamento: “Hanno fatto bene!”. Sulle folle inferocite che si dedicano al linciaggio, magari di innocenti, esiste una vasta casistica divenuta persino letteratura. La differenza, rispetto al passato, è che oggi per eccitarsi non bisogna scendere in strada, ci si aizza contro il reprobo restando seduti sul divano a guardare un video in solitudine.

L’idea, in sé pericolosa, che sembra essersi radicata in italiani d’ogni condizione sociale è che l’uso della forza da parte dei cittadini non può essere considerata arbitraria se posta al servizio di una giusta causa. Perché dovrebbe essere sbagliato impartire una salutare lezione di gruppo - a calci e pugni, agendo in branco come una muta di cani - allo scippatore o al ladro colto in flagrante? La legittima autodifesa, in questo caso, da individuale si fa collettiva. Così facendo si punta, mossi da un sentimento istintivo di giustizia, a riparare un torto in tempo reale, dando al malcapitato una lezione utile a prevenirne altri. Si punta altresì a coprire meritoriamente un vuoto: quello di uno Stato che, indipendentemente dai mezzi di cui dispone e dalla volontà che lo anima, non può essere ovunque. Il cittadino singolo si fa Stato, del quale è una componente essenziale, e ne surroga temporaneamente le funzioni. Si trasforma, al tempo stesso, in giudice e poliziotto: condanna senza processo e sanziona in forme grossolane per difendere la comunità cui appartiene.

Ma questo modo di ragionare, che a qualcuno sembra presentare persino qualche ragionevolezza, contiene in realtà inganni ed errori. Per cominciare, parliamo di una giustizia sommaria che per definizione è ingiusta, essendo sottratta a qualunque regola e procedura. Chi di noi vorrebbe essere sottoposto a una simile giustizia, senza le garanzie previste dal diritto? La storia è piena delle iniquità commesse dai sedicenti tribunali del popolo. Colpisce che oggi possano attecchire a destra, nella destra che si vorrebbe d’ordine e sostenitrice delle ragioni dello Stato, pratiche e mentalità che sono state tipiche dei movimenti e regimi rivoluzionari d’estrema sinistra. Quella di strada è poi una giustizia che non affianca provvidenzialmente lo Stato nelle zone dove quest’ultimo (spesso colpevolmente) non è presente, ma finisce per delegittimarlo definitivamente nella sua funzione forse più vitale: la tutela della sicurezza pubblica attraverso i suoi rappresentanti legittimi. Tanto più che ad esercitare una tale forma di “giustizia popolare” non sono cittadini normali, mossi da una comprensibile esasperazione o da sacrosanto desiderio di onestà, ma quelli tra i cittadini che più facilmente tendono a muoversi fuori dai confini della legalità e delle regole.

Da questo punto di vista, il recente episodio romano è stato assai rivelatore: tra i giustizieri del tossicodipendente che aveva aggredito l’anziana per procurarsi i soldi necessari all’acquisto di una dose c’erano spacciatori e pregiudicati. Non bravi ragazzi membri della comunità, non difensori dell’ordine violato, ma a loro volta, almeno alcuni di loro, professionisti del crimine e del degrado. Ciò detto, i cattivi umori popolari, pur senza assecondarli, bisogna comprenderli. Perché in molti, anche personalità magari miti, plaudono oggi alla giustizia da strada invece di augurarsi un regolare processo e una giusta condanna per chiunque compia un reato? Forse c’è un rimosso storico che ritorna. Lo abbiamo visto già con i fantasmi risvegliati dalla pandemia di un passato in cui le ondate pestilenziali erano la normalità. Lo stesso può dirsi per l’idea, un tempo anch’essa abituale, secondo la quale le condanne, le pene e le esecuzioni andavano eseguite in pubblico, affinché fossero di monito per tutti gli spettatori. Stiamo tornando a un tempo fatto di linciaggi partecipati collettivamente attraverso i social, un modo comodo per sfogare i nostri bassi istinti stando però lontani dai fatti reali e approvando azioni e gesti che nella realtà non saremmo in grado di compiere?

Ma forse la spiegazione è più semplice. Ci si appaga della giustizia sommaria nella convinzione che in Italia tra delitto e castigo non esista ormai più alcuna corrispondenza, a meno di non affidarsi - per chi è credente - all’autocritica e all’autoredenzione del colpevole. Siamo in un Paese dove non sempre si riesce a garantire lo svolgimento in tempi accettabili dei processi e l’esecuzione della condanna eventualmente inflitta, dove per molti reati vige ormai un regime di sostanziale impunità. Purtroppo a questa situazione si tende a rispondere con l’inasprimento nominale delle pene, con l’introduzione di nuove fattispecie di reato e con l’emergenzialismo da finto Stato di polizia. Ma questo tipo di risposta rischia di essere un palliativo propagandistico al quale la politica ricorre quando è in crisi di consenso o alle prese con qualche caso di cronaca particolarmente eclatante.

Presidio costante del territorio da parte delle forze di polizia, anche come atto simbolico. Pene severe ma certe, piuttosto che pene severissime ma aleatorie- Questo, nell’essenziale, la macchina dell’ordine pubblico e della giustizia dovrebbero garantire ai cittadini per farli sentire più sicuri e per sottrarli alla tentazione di cedere, anche solo col pensiero, allo spirito di vendetta privata, indegno di una nazione civile.