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di Giovanni Fiandaca*

Il Domani, 26 febbraio 2024

L’impressione è che il retroterra di sfondo della giustizia riparativa come da riforma coincida con una visione irenica e aconflittuale della società, di verosimile matrice religioso-comunitarista o in ogni caso di ispirazione umanista, tale per cui assurge a valore prioritario il recupero del legame personale e sociale che il reato avrebbe spezzato. La giustizia riparativa ha fatto il suo ingresso ufficiale nell’ordinamento italiano grazie alla recente riforma Cartabia, nel cui ambito essa è stata fatta oggetto di una disciplina organica (d.lgs. n. 150/2022).

Rinviando alla letteratura specialistica per un’esposizione particolareggiata di tale disciplina14, qui basta accennarne le principali linee direttrici. Premesso che essa nel contenuto si uniforma ampiamente alle preesistenti fonti normative internazionali e sovranazionali, i primi punti importanti da evidenziare sono i seguenti: l’accesso alla giustizia riparativa è concepito come complementare (e non sostitutivo) rispetto alla giustizia penale convenzionale; il ricorso ai suoi strumenti, definiti “programmi”, è potenzialmente ammesso in relazione a ogni tipo di reato, a prescindere dalla sua gravità (mentre in alcuni ordinamenti esso è limitato al novero dei reati di gravità medio-bassa) e, altresì, in ogni stato e grado del procedimento penale, nonché nella fase esecutiva della pena.

A informare senza ritardo in merito alla facoltà di accedere alla GR è l’autorità giudiziaria, e gli autori e le vittime interessate a fruirne debbono manifestare in proposito un consenso personale, volontario ed espresso in forma scritta; è previsto pure che possa essere il giudice di sua iniziativa a proporre alle parti un percorso di giustizia riparativa, ma queste devono in ogni caso esprimere un corrispondente assenso. È da aggiungere un dato rilevante: tra le vittime potenzialmente incluse nello svolgimento delle procedure riparative rientra anche la vittima “surrogata o aspecifica”, vale a dire la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede (questa inclusione estensiva si spiega considerando che le vittime effettive avvertono, non di rado, forti resistenze psicologiche a entrare in rapporto dialogico con gli offensori).

Quanto ai programmi (strumenti) utilizzabili, vengono esplicitamente menzionati: la mediazione tra autore e vittima, il dialogo riparativo e ogni altro programma dialogico guidato da mediatori. Quando il programma si conclude positivamente, cioè con un effettivo esito riparativo, quest’ultimo può essere “simbolico” (dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi) o “materiale” (risarcimento del danno, restituzioni, adoperarsi per elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori).

Tutto ciò premesso, veniamo ai punti che assumono un rilievo decisivo, innanzitutto chiedendoci: che tipo di effetti produce in sede penale l’avvio di un percorso di giustizia riparativa?

Bisogna in realtà distinguere. Se il percorso si interrompe o sfocia in un nulla di fatto, questo risultato fallimentare non produce alcun effetto sfavorevole nei confronti della persona indicata come autore del reato; com’è intuibile, produce viceversa effetti favorevoli (nel senso che fra poco specificherò) il suo buon esito.

Ma cosa deve intendersi per “riuscito esito riparativo”? La disciplina organica lo definisce così: “Qualunque accordo, risultante dal programma di giustizia riparativa, volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti”. Diciamo la verità: siamo in presenza di termini e concetti non poco generici e impregnati di una preconcetta visione “relazionale” del reato, che può invero esporsi a giustificati rilievi critici. Da un lato, ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una fallacia di generalizzazione: non tutti i reati infatti comportano la rottura di relazioni umane preesistenti, essendo anzi via via cresciuti negli ordinamenti moderni quelli senza vittime in carne e ossa, come ad esempio i delitti cosiddetti “a pericolo astratto”. Dall’altro lato, appare quantomeno dubbio che un mediatore possa ragionevolmente valutare come esito mancato l’eventuale stipula di seri accordi a contenuto materialmente riparatorio, se non accompagnata da un’ulteriore attenzione alla dimensione relazionale.

Al riguardo, emerge un profilo problematico che finora non è stato, forse, sufficientemente lumeggiato, ma che a me appare di importanza cruciale con riferimento ai princìpi costituzionali di fondo di un ordinamento come quello italiano.

Mi chiedo preliminarmente: quale concezione della società e dei rapporti tra individuo e comunità sociale sta dietro un modello di GR, come questo delineato dalla riforma Cartabia, che assume tra gli obiettivi fondamentali quello di favorire la riconciliazione personale tra offeso e offensore e altresì - come si afferma in altra parte della disciplina organica - la ricostituzione dei legami con la comunità? Orbene, l’impressione è che il retroterra di sfondo coincida con una visione irenica e aconflittuale della società, di verosimile matrice religioso-comunitarista o in ogni caso di ispirazione umanista, tale per cui assurge a valore prioritario il recupero del legame personale e sociale che il reato avrebbe spezzato.

Se l’impressione è giusta, si impone allora questa seconda domanda: quanto il suddetto modello di giustizia riparativa è compatibile col principio costituzionale di rieducazione, o meglio con quell’accezione laica di esso che - come abbiamo visto in precedenza - si è affermata come predominante tra gli studiosi di diritto penale, tenuto conto del contemporaneo rilievo da attribuire al principio del pluralismo politico-ideologico, culturale e morale? A rigore, questa compatibilità risulta quantomeno problematica. Non tutti infatti condividiamo, nell’attuale società pluralista, una concezione morale di sfondo che assume la riconciliazione interpersonale o comunitaria a valore prioritario: ad esempio, un autore di reato di orientamento ideologico liberale-individualistico potrebbe rimanere indifferente rispetto alla prospettiva di entrare in sintonia con la vittima in carne e ossa, ma potrebbe nondimeno essere disposto a compiere impegnative prestazioni riparatorie volte a neutralizzare le conseguenze dannose del reato commesso.

Dovremmo ritenere che, in un caso come questo, manchi qualcosa per considerare l’autore socialmente recuperato anche alla stregua dei princìpi e valori sottostanti alla giustizia riparativa? Se pensassimo così, a mio avviso giungeremmo a una conclusione costituzionalmente più che discutibile.

*Estratto del libro “Punizione”, edito dal Mulino