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di Marcello Maria Pesarini

transform-italia.it, 2 giugno 2023

Sotto i buoni auspici della ministra Cartabia, per sua personale competenza ed attenzione, è entrata nei programmi del Ministero della Giustizia la giustizia riparativa. Qui si parla non di permesso all’utilizzo, quanto di spinta convinta, in contrasto sia con l’impulso all’edilizia penitenziaria sia alla dismissione di tutte le pratiche alternative nate dall’incontro fra colpevoli, vittime e attori penitenziari.

L’incontro fra vittima e attore del reato, o suoi familiari, la presa in coscienza del danno arrecato e dei suoi effetti, il prendere il carico sulle spalle e condividerlo può avvenire attraverso un lungo percorso che richiede severe procedure, non tanto tecniche quanto di affettività e dedizione. L’esigenza di un’autentica responsabilizzazione dell’offensore, sostanzialmente privo di reali occasioni per prendere coscienza delle conseguenze che le sue azioni hanno sortito in altre vite: una finalità, quest’ultima, che non dovrebbe essere perseguita attraverso astratti e pre-definiti programmi di ‘rieducazione’ uguali per tutti, bensì mostrando all’offensore gli effetti del suo comportamento sulle vite che da questo sono state affette e chiamandolo, nei limiti del possibile, a porvi rimedio attivamente.

Si intersecano alle volte in carcere con la giustizia riparativa attività teatrali, di lettura, di scrittura, di danza, come ausilio espressivo in alcuni passaggi. Questi momenti non vanno confusi con i pre-definiti programmi, più o meno avanzati di ‘rieducazione’, come detto in precedenza. L’intero pianeta carcere, in attesa di essere dismesso per come è concepito ora, deve seguire queste evoluzioni. L’esempio che riporto mi suggerisce, in maniera neanche tanto faceta, un’estensione del concetto di giustizia riparativa.

Partecipando a una lezione integrativa in una scuola superiore tenuta da una responsabile trattamentale, sono rimasto impressionato dall’intelligenza e dal senso pratico di una studentessa che affermava che preparare foglietti infilati l’uno nell’altro a mo’ di scatola cinese per un’interrogazione era quasi più faticoso e meno educativo che studiare. Tal quale, lavorare o delinquere.

Ovvio è che il reato veniva esaminato fuori da qualsiasi contesto sociale e storico, ma i vari avvertimenti che gli attivisti e le attiviste di Ultima Generazione e di FFF, che siano gettarsi fango addosso in sostituzione dell’abito usuale, o gettarsi nel fango a lavorare dove la natura si è ribellata all’uomo, imbrattare quadri di un’esposizione o un palazzo istituzionale, se non cambiare il colore dell’acqua di una fontana, vanno nella direzione della giustizia riparativa.

Se il richiamo alla profonda preoccupazione per l’avvenire del pianeta si esercitasse con azioni eclatanti ma pericolose, si potrebbe parlare di mezzi che non sono giustificati dal fine. Se però ci preoccupiamo di analizzare la sproporzione fra l’impudente inattività e ancor peggio la continuazione di attività dannosissime alla convivenza umana e naturale, il ritardo accumulato a partire dagli eventi degli anni 60-70, abbiamo chiara la sproporzione fra la reazione alla denuncia e i comportamenti denunciati.

Numerose persone appartenenti alla mia generazione avevano già cominciato a tentare di superare la dicotomia fra sviluppo sociale e salvaguardia ambientale davanti a eventi come l’avvelenamento dell’ACNA di Cengio a Seveso nel 1976, alle denunce di trasporto e interramento di rifiuti pericolosi a partire almeno dagli anni 70 dal Nord al Sud del mondo, alla tragedia della centrale nucleare nell’allora URSS di Chernobyl del 1986; queste persone, noi, non possiamo non appoggiare la carica delle nuove generazioni contro il sistema.

Ascoltare la nenia dei governanti, dei commentatori, che stigmatizzano Ultima Generazione e li chiamano a processo o legiferano in materia coercitiva e terrorista contro di loro, è odioso.

Queste persone, questi sepolcri imbiancati che si accompagnano con l’insolenza e l’ignoranza che fa loro straparlare negando l’emergenza climatica, smantellano al contempo i presidi ambientali e sanitari pubblici costruiti dall’uomo, con l’effetto di restringere sempre di più l’agibilità e la salubrità per la maggior parte dei cittadini. Più che giustizia riparativa, visti i termini, si potrebbe parlare di legge del contrappasso. Però penso che governanti e sostenitori debbanoi conoscere l’angoscia costituita da fiumi di acqua e fango che non vengono riassorbiti in Romagna dopo una settimana, i mucchi di beni persi che vanno dai libri al cibo, dagli esseri umani e animali morti, dispersi a chilometri di distanza, la disperazione di scegliere fra l’allagamento dei campi coltivati e delle città. Il futuro distopico per queste persone è già arrivato, in Emilia-Romagna come nelle Marche, nei ghiacciai che si staccano dalle montagne o si sciolgono, in tante morti che richiedono una risposta. Non la può dare né chi governa né chi ha governato in precedenza.