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di Oliverio Mazza

Il Dubbio, 23 settembre 2023

L’intervento della Presidente della Camera Penale di Milano ha dato avvio al dibattito, da me auspicato, sulla giustizia riparativa. Il confronto, tuttavia, deve avere ad oggetto quella che è la disciplina di legge vigente e non quella che vorremmo che fosse.

Un primo equivoco riguarda i principi generali e le finalità. L’art. 43 co. 2 d. lgs. 150 del 2022 non lascia dubbi sul fatto che i programmi di giustizia riparativa “tendono a promuovere il riconoscimento della vittima” e la “responsabilizzazione” dell’imputato. Nessun infingimento da parte del legislatore, la giustizia riparativa richiede ruoli definiti, vittima e colpevole, che sono ontologicamente incompatibili con la presunzione d’innocenza. Che sia un sistema vittimocentrico è confermato, senza possibilità di dubbio, dalle fonti europee (art. 12 Direttiva 2012/ 29/ UE “solo nell’interesse della vittima”).

Al tavolo del mediatore l’imputato verrà “responsabilizzato” senza la presenza del difensore, considerato, quest’ultimo, un elemento di disturbo. Responsabilizzare l’imputato e riconoscere il ruolo della vittima significa ammettere i fatti e le responsabilità, ossia confessare davanti al mediatore, con atto di contrizione, senza alcuna garanzia difensiva. Del resto, il riconoscimento dei fatti del caso è richiesto, quale condizione inderogabile, dall’art. 12 Direttiva 2012/ 29/ UE e dall’art. 30 Raccomandazione 8(2018) Consiglio d’Europa.

La giustizia riparativa non è una scelta volontaria compiuta al di fuori del processo, ma è stata impropriamente costruita alla stregua di un procedimento incidentale rispetto a quello di cognizione (art. 129-bis c. p. p.), dando così origine a un accertamento parallelo privo di qualsivoglia garanzia, a partire dall’inaccettabile esclusione del difensore. Non farei troppo affidamento, ad esempio, sulla riservatezza (si badi, non segretezza) in ordine a quanto avverrà al tavolo del mediatore, per di più in assenza di sanzioni. Chi potrà impedire alla persona offesa di testimoniare nel processo, riferendo quanto avvenuto nel corso degli incontri di mediazione? L’art. 50 comma 2 d. lgs. 150 del 2022 prevede a carico dei partecipati un obbligo di non divulgazione (sic!) delle informazioni che è certamente cedevole rispetto al diritto di autodifesa, anche della persona offesa, mentre l’inutilizzabilità riguarda solo gli atti della mediazione, non la testimonianza che verta su di essi. Norme vaghe, fondate su concetti impropri (divulgare è cosa ben diversa dal testimoniare in un processo), non costituiscono alcun argine rispetto all’inevitabile osmosi fra i procedimenti incidentali.

Quanto al carattere etico, il dialogo riparativo (art. 53 lett. b d. lgs. 150 del 2022), radicato sul riconoscimento dei ruoli e delle responsabilità (confessione), mi ricorda molto da vicino la concezione medicinale della pena di carneluttiana memoria. Vogliamo rimettere la decisione della quesitone penale a un mediatore metà parroco e metà psicologo, secondo la definizione di Cavallone? È questo il futuro della giustizia penale consacrato anche nei protocolli?

Bisogna intervenire al più presto con correttivi di legge che isolino il sistema della giustizia riparativa dal processo penale, rendendolo davvero volontario, separando nettamente la cognizione dalla mediazione e tenendo indenni le categorie penalistiche da concetti quali pentimento e riconciliazione. Oppure ci sono altre ragioni, non dichiarate, che richiedono l’istituzionalizzazione della giustizia riparativa quale surrogato della cognizione garantita dal giusto processo?