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di Iacopo Benevieri

Il Riformista, 20 marzo 2024

Secondo un aforisma attribuito ad Eraclito (gli aforismi son sempre attribuiti, tracce del pensato umano troppo dense perché discendano da un solo genitore) “l’unica costante della vita è il cambiamento”. In termini matematici potremmo dire che l’unica costante è la variabile. Eppure nessuno avrebbe osato immaginare che uno dei più grandi pensatori presocratici sarebbe stato smentito da un fenomeno, l’unico forse che si sottrae al Panta Rei. Questo fenomeno è la parola infamante.

La parola infamante non è sottoposta alle leggi della fisica, soprattutto a quella del Tempo. Il dio Crono ha il potere di demolire imperi, di radere al suolo civiltà e dinastie, di congiungere e isolare continenti, di plasmare l’evoluzione morfologica dei corpi viventi ma nulla può contro la parola infamante. D’altronde chi maldice l’altro è capace di estrarre proprio dall’abisso del tempo antichi sospetti che un dì perseguitarono il malcapitato e, bisbigliandoli ai padiglioni auricolari altrui, fornisce loro una cittadinanza nuova nella contemporaneità.

Gli heretici infamati - Di questa verità erano a tal punto consapevoli gli Inquisitori del Medioevo che, a partire dalla metà del XII secolo, inventarono l’archivio degli eretici. Per la precisione, un archivio degli “heretici infamati”: un complesso schedario nel quale non solo venivano pazientemente annotate le sentenze di condanna pronunciate contro i malcapitati, ma venivano registrati persino i sospetti, le congetture, le dicerie, le inquisizioni avviate e poi abortite, il fiutar investigativo che, anche solo per poche ore, si era avvicinato a qualche vita. Un compendio di biografie dell’infamia. Tutto era trascritto, annotato, chiosato in un impasto d’inchiostro e di potere affinché quei sospetti resistessero al vento sabbioso del Tempo e, a distanza di anni, potessero essere recuperati, approfonditi, ridestando con scalpore la gogna nella comunità.

Nomi e cognomi di persone sospettate - A tutto questo vien da pensare scorrendo le più recenti notizie di cronaca giudiziaria, che hanno trattato di recenti sviluppi processuali per pregressi fatti delittuosi, mai risolti, pubblicando i nomi e i cognomi di persone sospettate, indagate, imputate, talvolta già prosciolte. Abbiamo letto nomi e cognomi di presunti non colpevoli, i quali a distanza di decenni vedono le proprie generalità estratte dall’abisso del Tempo, alle cui leggi si sottrae la parola infamante. In un periodo nel quale discettiamo con acute disquisizioni sociologiche e giuridiche del divieto di pubblicazione di ordinanze cautelari per garantire la presunzione d’innocenza, ci sfugge come questa stessa presunzione sia annichilita da pericolose esposizioni di molte biografie all’infamia dei delitti cui vengono associate.

Leggiamo, per esempio, della recente vicenda “UnaBomber”, l’anonimo che dal 1994 al 2006 ha cosparso il Nordest di 34 ordigni esplosivi, il primo dei quali esplose nel 1994, dunque 30 anni fa, il più recente nel 2006. Oggi gli accertamenti genetici sui reperti potrebbero essere più efficaci, lo sviluppo scientifico consentirebbe nuovi approfondimenti, dunque le indagini vengono riaperte e si procederà a condurre tali accertamenti con incidente probatorio. I prelievi biologici verranno effettuati sulle undici persone che all’epoca erano state sottoposte alle indagini, le cui posizioni erano state successivamente archiviate, nonché su altre quindici persone, che all’epoca erano state sospettate, indiziate, in qualche modo sfiorate da congetture investigative, ma non indagate. Queste quindici persone verranno invitate a sottoporsi volontariamente al prelievo del Dna. Qualora si rifiutassero, il Gip potrà valutare se disporre il prelievo coatto.

UnaBomber, Nada Cella, via Poma: delitti irrisolti e nuova gogna - Così sono stati diffusi i nomi, i cognomi e addirittura le località di residenza di tutte e undici le persone che all’epoca furono indagate: i nomi e i cognomi di uomini che, in un altro momento della loro vita, erano stati lambiti dal sospetto d’una responsabilità così grave come quella per i reati sui quali si indaga, successivamente annichilito da provvedimenti di archiviazione. Anche i nomi e i cognomi degli imputati nella vicenda relativa all’omicidio di Nada Cella sono stati recentemente riportati sotto i riflettori. Nel 2021 la Procura della Repubblica di Genova aveva riaperto le indagini sulla base di una tesi di laurea nella quale una criminologa aveva messo in evidenza alcuni elementi e testimonianze ritenute rilevanti ma ignorate fino a quel momento. È la storia della metamorfosi kafkiana di una tesi di laurea nella tesi di una Procura della Repubblica. Un’ipotesi di ricerca accademica diventa ipotesi investigativa e, infine, si compendia nelle pagine timbrate di una richiesta di rinvio a giudizio. Quelle tesi non hanno, tuttavia, superato l’esame davanti al GUP di Genova, che ha pronunciato una sentenza di non luogo a procedere nei confronti delle tre persone imputate. La notizia è stata diffusa, accostando quelle biografie al terribile omicidio: a distanza di 28 anni dal delitto l’infamia del sospetto si è nuovamente destata, poco rileva se ritenuta giuridicamente non meritevole neppure d’un processo.

Su un altro terribile delitto la parola infamante ha perseguitato una persona, dopo 33 anni dai fatti. Nella vicenda del noto delitto di via Poma recentemente è stato diffuso il nome del figlio di colui che fu il principale indagato. I titoli che richiamavano l’attenzione sulla notizia non lasciavano dubbi sulla fondatezza del sospetto: il nome era stato riportato in un’informativa della polizia giudiziaria. Dunque, non in una richiesta di rinvio a giudizio, neppure in un provvedimento giudiziario ma in un rapporto nel quale si prospettava unicamente un’ipotesi investigativa.

Nella valutazione sulla “notiziabilità” del fatto pochissimo rilievo ha avuto la circostanza che la stessa Procura della Repubblica avesse formulato richiesta di archiviazione, avendo ritenuto la ricostruzione prospettata dagli investigatori “fondata su una serie di ipotesi e suggestioni che, in assenza di elementi concreti di natura quantomeno indiziaria, non consentono di superare le forti perplessità sulla reale fondatezza del quadro ipotetico tracciato”.

Insomma, il coinvolgimento, ampiamente diffuso, del nome e cognome del nuovo sospettato risulterebbe basato su una ricostruzione “suggestiva”.

Il tema della pubblicazione delle ordinanze cautelari è già superato: basta retrocedere alle informative, alle segnalazioni, alle annotazioni di polizia giudiziaria, agli atti di identificazione. Le parole d’infamia camminano a lungo, oltrepassano i decenni, il Tempo non riesce ad arginarle e raggiungono il malcapitato, ovunque sia.

Dunque non viviamo in un’epoca post-rinascimentale ma, semmai, tardo-medioevale. Eppure i nostri padri e madri costituenti si erano impegnati affinché ciò non accadesse.

Quando tra il 1946 e la fine del 1947 fu scritta la Costituzione, quasi il 60 per cento delle persone adulte non aveva conseguito neppure la licenza elementare. Per questo motivo i Costituenti avevano ritenuto necessario che la Costituzione fosse scritta in modo tale da farsi comprendere dal Paese reale. La scelta linguistica fu, dunque, conseguente.

Nella scrittura degli articoli della Carta, infatti, si fece ricorso al vocabolario di base della lingua italiana, vale a dire quello di massima diffusione e uso. In media la Costituzione è composta da articoli scritti con un po’ meno di 20 parole per frase.

L’art. 27 comma 2 della Costituzione, che stabilisce il principio della presunzione di innocenza, ne è un esempio abbagliante. Recita che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

Fermiamoci un attimo. Fu utilizzato il verbo “considerare”, anziché “giudicare”. La scelta era chiara, ma pare non esserlo più oggi. Infatti, ricorrendo al verbo “considerare” l’intenzione era che potesse accadere un miracolo, cioè che il principio della presunzione d’innocenza uscisse dalle aule di giustizia e pervadesse ogni luogo e ogni momento del vivere dei consociati, proteggendo la persona imputata e la sua reputazione dalle parole d’infamia.

Sancire che l’imputato non può essere “considerato” colpevole significa impedire che la considerazione sociale di una persona, il discorso pubblico e collettivo intorno a quella persona, in ogni momento della sua vita, non possa essere mai pregiudicato dalla condizione giuridica derivante dall’imputazione e, tantomeno, dalla sottoposizione a indagini ovvero dalla formulazione di vaghi sospetti, soprattutto a distanza di decenni dai fatti sui quali si indaga.

Questa è la ragione principale per la quale l’art. 27 comma 2 della Costituzione, prima che costituire un principio giuridico, è un vero canone linguistico.

È un modello che dovrebbe ispirare le prassi comunicative di un’intera società e, pertanto, anche dei mass media. Il principio di non colpevolezza, nella formulazione che abbiamo sottolineato, è rete di protezione del singolo rispetto al discorso mediatico sulle vicende giudiziarie che lo coinvolgono.

L’art. 27 comma 2 della Carta è un contropotere linguistico. Le ragioni sono ovvie.

La comunicazione di gran parte dei mass-media tende a procedere per narrazioni assiomatiche, quella giudiziale per ipotesi narrative.

La comunicazione di certi media spesso isola e decontestualizza elementi investigativi e di prova, il processo li mette in relazione, sottoponendoli a critica. La sintassi mediatica spesso è assertiva, quella del processo è ipotetica. Là le ipotesi d’indagine o d’accusa sono offerte fin da subito con il presente indicativo, nelle aule di giustizia il periodare è declinato al congiuntivo e al condizionale. All’indicativo dell’assertività dovrebbe esser riservato solo l’ultimo atto, quello del dispositivo della sentenza, non quello delle parole d’infamia nei titoli, nei sottotitoli su imputati, indagati, sospettati, identificati.