sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Francesco Verri

Il Dubbio, 20 gennaio 2024

L’interesse e la discussione sulla “gogna” alla quale i media e i social espongono e sottopongono chi sbaglia (o è solo accusato di aver sbagliato) sono al loro apice. Mai se n’è parlato tanto o per lo meno in modo così diffuso, anche al di fuori - cioè - della cerchia degli addetti ai lavori. Hanno certamente influito alcune clamorose vicende. Soprattutto quella di Chiara Ferragni, accusata di avere consapevolmente ingannato il pubblico sulla destinazione in beneficenza di una parte del ricavato di un pandoro; e ora quella di Giovanna Pedretti, la ristoratrice che si è tolta la vita probabilmente perché non è riuscita a sopportare le critiche e gli insulti basati sul sospetto che avesse inventato una recensione sfavorevole sulla presenza nel suo ristorante di gay e disabili allo scopo di reagire contro il falso avventore e procurarsi, così, una pubblicità a buon mercato (è stato definito “marketing dei sentimenti”). Il “grande pubblico” e la stampa in queste ore si interrogano con una certa (inedita) insistenza sul fenomeno e sulle sue pericolose implicazioni, che le vittime conoscono bene. Le vittime sopravvissute, intendo. Perché fra le persone cadute sotto una “ shitstorm” - come le chiamano - non c’è solo Giovanna Pedretti. Il “Corriere della Sera” ha ricordato il suicidio dell’imprenditore agrigentino Alberto Re che a novembre si è tolto la vita dopo che alla serata inaugurale del festival che aveva organizzato il teatro era rimasto vuoto e questo aveva provocato una valanga di sfottò e di insulti sui social. Ma mi viene in mente anche la vicenda del vigile urbano che, a Bergamo, aveva parcheggiato l’autovettura in uno stallo per disabili e, quando la fotografia della violazione ha cominciato a circolare scatenando il solito fuoco di fila, non ha retto. E come non rievocare, andando un po’ più indietro nel tempo, gli indagati di Tangentopoli suicidi anch’essi perché travolti dall’ondata d’odio scatenata da una “inchiesta spettacolo” svolta senza il minimo rispetto del segreto istruttorio e utilizzando il “tintinnio delle manette” come spauracchio per indurre confessioni e “pentimenti”. Chi respinge l’accusa di ispirare e celebrare processi mediatici (Selvaggia Lucarelli e il compagno) non dice una sciocchezza quando rivendica il diritto di critica. In effetti, se risultasse vero che la recensione pubblicata dalla ristoratrice è una fake news, dovremmo dire che è legittimo smascherarla. Quello che però si trascura è che le opinioni devono essere espresse con misura e moderazione. E, se si tratta di reati ancora da accertare, non si possono anticipare i giudizi. Altro è disapprovare un comportamento o segnalare un errore e persino riferire di un’ipotesi di reato (a tempo debito); altro è offendere e invitare - direttamente o meno, intenzionalmente o meno - il popolo del web all’odio verso il bersaglio di turno. Un sentimento da consumare in fretta perché la notizia brucia, i social fremono e non c’è tempo di approfondire, verificare, garantire i diritti. Vittorio Manes, nel suo prezioso “Giustizia mediatica”, ha scritto: “Di fronte alla distanza temporale tra il processo anticipato in modo fast and frugal dai media e il processo reale, e al cospetto dell’eventuale esito divergente a cui i due “sistemi di verifica” possono condurre, è quasi scontata la tentazione di ritenere il secondo un’accozzaglia di orpelli formali, di lungaggini e cavilli da rimuovere per migliorarne le prestazioni in termini efficientistici, o persino di ritenere il primo strumento più efficace e tempestivo della giustizia istituzionale”. Ora la riflessione è uscita dai saggi, dalle aule delle Università, da quelle dei Tribunali e dai convegni fra avvocati. Un suicidio clamoroso ha messo il tema all’ordine del giorno. Pochi giorni prima, Chiara Ferragni, idolo del web, era diventata Belzebù in un attimo. Colpita da una sanzione. Ma anche da una fuga di notizie su un procedimento penale che avrebbe dovuto restare riservato e di cui invece sappiamo tutto. E che si è concluso male - prima di cominciare. Come è finita in tragedia l’indagine su Lee Sunkyun, l’attore protagonista del film Parasite, interrogato per diciannove ore in relazione a fatti di droga mentre i media, che lo avevano “accompagnato” davanti alla polizia, raccontavano tutto per filo e per segno. Lee si è suicidato alla vigilia di Natale. E ora il regista della pellicola, Bong Joon- ho, accusa gli inquirenti di aver passato le notizie alla stampa e chiede un’inchiesta sulla morte.

Ancora Manes ha spiegato, a proposito delle fughe di notizie, che esse provocano una “ustionante e spesso irrimediabile esperienza di degradazione individuale dei soggetti coinvolti perpetrata e subita in un autentico “regime di sospensione” delle prerogative fondamentali che dovrebbero essere garantite dallo Stato”. Serviranno a qualcosa questi ennesimi sacrifici? Si potrebbe cominciare da qui, in fondo. Dal recupero, a qualunque latitudine, del valore del segreto delle indagini preliminari, funzionale a proteggerne il corso ma soprattutto a tutelare i presunti innocenti coinvolti.

*Avvocato penalista