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di Gaia Manzini

L’Espresso, 3 dicembre 2023

Per disinteresse, apatia, depressione persino. La dispersione aumenta. E ora a lasciare sono anche studenti dei licei più prestigiosi, con famiglie benestanti alle spalle. Gli esperti confermano: il dialogo scuola-ragazzi è in crisi. Ludovico, 20 anni, viveva in una piccola città di provincia in mezzo alla pianura padana. Di quella città ricorda solo la nebbia e i ragazzi come lui che sentivano di non avere obiettivi; e allora molto meglio andarsene in giro per quattro giorni senza dare notizie, invece che entrare in classe tutte le mattine.

Ludovico per tre anni non è andato a scuola e quest’anno, invece, darà la maturità a Milano. Riconosce tutti i suoi errori, sa che si comportava male, sa che le bocciature allo scientifico e poi a ragioneria se l’è meritate. Lo sa. “Ho lasciato perché fumavo l’erba, ero impegnato in quello. La scuola mi sembrava secondaria”, dice. Ma sa anche quello che gli è mancato.

Ludovico è figlio di una professionista e di un ex dirigente di un’azienda informatica: due genitori laureati e presenti, eppure. I dati Istat parlano di percentuali in ascesa per quanto riguarda la dispersione scolastica. Nel solo 2022 i giovani tra i 18 e i 24 anni che non sono arrivati al diploma si aggirano intorno all’11,6 per cento. La novità è che molti tra questi ragazzi non vivono in periferia, non annaspano nel disagio economico e sociale.

Per Nadia Fina psicoanalista, psicoterapeuta, presidente APG (Associazione di Psicoterapia psicoanalitica di Gruppo) le criticità della scuola sono molte. Tutto dipende dalla disponibilità del singolo insegnante a trovare momenti formativi che vadano a integrare il piano didattico. Gli studenti si sentono appiattiti su una sola dimensione, che è sempre una dimensione numerica. “Per me, il professore in classe non dovrebbe imitare il linguaggio giovanile, ma usare sempre un lessico più ricco”, dice Ludovico: “È un modo di tenere più attenti i ragazzi, ma anche di dare loro importanza”. Perché spesso c’è la sensazione di non essere “visti” nella propria peculiarità. I professori a volte si dimenticano i loro nomi. Il nome, prima chiave della nostra identità.

“I modelli famigliari hanno avuto negli ultimi decenni una profonda trasformazione”, dice Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, autore di “Sii te stesso a modo mio” (Raffaello Cortina editore): “Siamo passati da una famiglia normativa a una più relazionale”. I ragazzi quando vanno a scuola non sono più solo degli studenti, non portano solo libri, ma molto - moltissimo - di loro stessi. Si confidano con gli insegnanti, mostrano la loro sfera personale. Ma nello stesso tempo la scuola è un luogo con il quale non si identificano, che “li infantilizza e li mortifica”.

È come se il Ministero dell’Istruzione (e del Merito) non si rivolgesse ai suoi utenti, cioè ai ragazzi e alle ragazze, ma al suo milione di dipendenti e ai genitori (a chi va a votare, verrebbe da pensare).

Marco, per esempio, un paziente di Lancini, si lamentava che l’unica preoccupazione degli insegnanti fosse il casco che lui preferiva tenere sul banco. Oppure che il telefonino venisse spento. “Il cuore del problema non è il cellulare, ma il coinvolgimento”, ribadisce Lancini.Spesso il punto dolente è la didattica, che qualche insegnante illuminato affronta tuttavia con acume. Come quella professoressa d’italiano che fa svolgere il tema dall’Intelligenza Artificiale e poi lo fa confrontare con i testi dei ragazzi. In classe si discute delle differenze, si cerca di prendere distanza, di cancellare i pregiudizi. Si allena lo sguardo critico, l’unico che ci può salvare dal mondo.

Zoe, 16 anni, dopo un periodo di depressione ha deciso di non frequentare più il liceo artistico. A scuola, dove aveva la media del nove, si annoiava; le lezioni erano troppo lente per lei. Molto meglio studiare a casa con gli appunti passati dai compagni e usare il resto della giornata per i progetti artistici che ha in mente. “C’è una scissione netta tra la vita dei giovani, fatta anche di nuove tecnologie, e l’insegnamento” dice Fina: “Gli studenti spesso non trovano una dimensione di senso in quello che viene loro insegnato”.

Per Ludovico la sola spiegazione in classe non può bastare. “Gli insegnanti dovrebbero preoccuparsi di più dell’interazione con noi. Fare domande agli studenti, chiedere la loro opinione, in modo che la lezione sia una collaborazione. Ecco, la lezione dovrebbe essere proprio un dialogo”.

Marina ha 17 anni, ha frequentato per due anni e mezzo un importante liceo classico. Anche lei in pagella aveva nove o dieci in tutte le materie. Anche in greco, anche in latino. Poi a un certo punto ha deciso che la scuola non faceva più per lei. Non riusciva neanche più ad andarci, per colpa dell’ansia da prestazione. La seconda parte del terzo anno l’ha frequentata a casa in Dad, anche se il Covid non c’era più. I professori si sono molto interessati al suo abbandono, hanno cercato di capire; ma, dice Marina, “se non avessi avuto quel passato scolastico non ci sarebbe stata tanta apertura”.

Cercare il perfezionismo estremo, richiedere la performance: sono atteggiamenti incoraggiati da molti istituti. Poi lo studente è lasciato lì da solo, valutato solo al momento dell’interrogazione. Nessuna considerazione alla persona, nessun peso agli aspetti psicologici.

Dal Berchet, liceo milanese di grande fama, qualche mese fa se ne sono andati 56 ragazzi. In una lettera al Corriere della Sera hanno parlato di un malessere crescente nella loro vita scolastica. E di una fragilità che ha bisogno di essere riconosciuta.

“La scuola di oggi riproduce quello che succede nel mondo del lavoro”, dice Nadia Fina. Invece di formare, si affanna nella ricerca dell’eccellenza, perché l’eccellenza rende un istituto più appetibile di altri: “Naturalmente l’abbandono scolastico è spesso una conseguenza di forme di malessere psicologico e di dolore psichico importante, per il quale i ragazzi necessitano un distanziamento dalla classe e dagli insegnanti”.

Per Nadia Fina questo disagio giovanile all’interno di nuclei famigliari borghesi è stato fortemente acuito dalla pandemia, ma è una fragilità che riflette quella delle famiglie, soprattutto della funzione genitoriale. Se da un lato la famiglia è meno solida nel suo essere un rifermento, dall’altro la scuola è sentita come lontana. Il malessere giovanile non viene riconosciuto dall’istituzione scolastica, non viene capito. “I fenomeni di violenza minorile che ci circondano sono espressione di una disgregazione”: la scuola ha perso la funzione di saper e voler contenere un ventaglio ampio di declinazioni dell’adolescenza. Non è in grado di gestire conflittualità; manca ormai la fiducia reciproca con i ragazzi e le famiglie. La didattica a distanza ha prodotto uno scollamento, uno sguardo critico nei ragazzi, al quale non c’è stata una risposta adeguata. Da parte del Ministero non è stata pensata una nuova progettualità.

La responsabilità della scuola appare quella di non voler farsi carico delle molte fragilità dei ragazzi, di girare la testa. Di abbandonare prima di essere abbandonata. Giorgio, ora ventiduenne, figlio di un geofisico e di una giornalista, ha una storia di depressione iniziata fin dalle medie. Ha lasciato la scuola a sedici anni e non ci è più tornato, ma non è lui a raccontarlo, ancora non riesce a parlarne: è sua madre Sara. Frequentare un istituto tecnico in una zona periferica della città in cui vive, all’inizio, non gli era sembrato inverosimile, perché lì insegnavano cinema e fotografia. Poi però la scuola ha i suoi problemi e di quel ragazzo all’ultima fila col cappuccio tirato sugli occhi, lo zaino piazzato sul banco come se fosse una barricata, non si vuole curare. Quando ha progressivamente iniziato ad andare male fino a decidere di lasciare, nessun professore, nessun compagno, nessun dirigente hanno mai chiesto notizie. Nessuno se ne è mai interessato. Da quel momento, Giorgio non è più uscito di casa per tre anni. Non voleva incontrare i suoi coetanei, si vergognava. Ha iniziato a invertire il giorno con la notte, a mangiare troppo o a digiunare per giorni. Sara mi fa notare che gli unici due professori che erano soliti rivolgerli la parola erano quelli delle materie, diritto e storia, in cui lui aveva la media del sette. I rapporti umani. Ludovico lo sa bene. Ora non fuma più e vive a Milano da una zia. Al pomeriggio frequenta la scuola di recupero, al mattino lavora con un artigiano. In lui ha trovato un mentore, anche su lessico e buone maniere. La cosa che gli piace più di tutte è il lavoro manuale: “la bellezza di poter toccare le cose che faccio”. L’oggetto di cui va più orgoglioso è una cornice che ha decorato per uno specchio a forma di goccia. Il lavoro gli è servito, gli “sembra di aver imparato meglio la vita”, e il resto è venuto da sé. Anche un ritrovato piacere di imparare e studiare: “Finalmente sento di non essere più un filo d’erba in mezzo a un campo”.