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di Francesco Grignetti

La Stampa, 28 gennaio 2023

Così l’effetto dei tagli ha ridotto il sistema italiano uno dei peggiori d’Europa. Non saranno forse le sette piaghe bibliche che schiantarono l’Egitto dei faraoni, ma certo anche la giustizia italiana ha le sue piaghe. Croniche. Immutabili. E sotto gli occhi di tutti: tempi troppo lunghi per la definizione dei processi, massiccia prescrizione dei reati, giudici in perenne affanno per via di immani carichi di lavoro, personale amministrativo demotivato e paurosamente sotto organico, stabili vetusti e anche quelli abbastanza nuovi già pieni di acciacchi, caos tra leggi in continuo divenire e sentenze spesso in contraddizione tra di loro. Ce n’è abbastanza per alzare le braccia e scappare. E infatti. Il nuovo ministro Carlo Nordio, che da qualche settimana è passato dalla posizione di fustigatore a quella molto più scomoda di responsabile del buon andamento della giustizia, si è sfogato così in Parlamento: “Ho avuto vari contatti con autorità e con colleghi stranieri, ho ricevuto molti ambasciatori, e la lamentela unanime è che in Italia non si possa investire, perché l’incertezza del diritto e la lunghezza dei processi rendono antieconomico l’investimento”.

Al di là dei massimi sistemi, insomma, e senza impantanarsi nel dibattito se le intercettazioni siano troppe e poche, se occorra la separazione delle carriere dei magistrati o in fondo basti la semi-separazione delle funzioni com’è oggi, è alle cose concrete che bisogna guardare. Se nell’anno appena trascorso ci sono state 104 mila prescrizioni, ovvero altrettanti processi andati in fumo nei diversi gradi di giudizio, di chi è la colpa? Di magistrati e dipendenti lavativi o di un sistema che è sull’orlo del collasso ogni giorno? E ancora: con chi prendersela se nei tribunali ordinari nel 2019 servivano 392 giorni per una sentenza di primo grado e ora ne servono 414? Va peggio nelle corti d’appello: nel 2019 ci volevano 835 giorni (835 giorni! Due anni e rotti) per definire un processo e nel 2021 siamo passati a 906 giorni (due anni e mezzo)? Si aspettano anni per avere giustizia. E se non si invertirà presto la rotta, arriverà come una mannaia la riforma Cartabia - colpa dei partiti della maggioranza Draghi che non si mettevano d’accordo su nulla - che ha inventato un cervellotico sistema di prescrizione processuale, per cui se in secondo grado si sforeranno i 730 giorni il processo sarà annullato senza speranza.

In fondo c’è poco da meravigliarsi se le cose nei tribunali vanno male, così come vanno malissimo negli ospedali pubblici. Siamo in Italia e il problema è sempre lo stesso: da troppi anni nel settore pubblico si fanno tagli, a ogni livello, in ogni direzione. E alla fine se ne paga il prezzo.

Due giorni fa, all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, il Primo presidente di Cassazione, Pietro Curzio, ha aperto il suo intervento con parole amare: “Non bisogna essere esperti di scienza delle organizzazioni per comprendere che senza risorse umane, strumentali e finanziarie adeguate non si possono ottenere buoni risultati. Per molti anni si è praticata una linea di intervento sulla giustizia affidato a riforme a costo zero. Per decenni le assunzioni di personale sono rimaste bloccate, non vi è stato turn over e l’età media del personale è progressivamente cresciuta”.

No, non bisogna avere una laurea in gestione dei sistemi complessi per capire che i meccanismi non possono filare lisci se mediamente nelle cancellerie manca un’unità ogni quattro. Ma le statistiche, poi, ingannano. Senza scomodare i polli di Trilussa, è verissimo che qualche ufficio giudiziario mangia quasi il suo pollo intero e un altro digiuna. Da un recente monitoraggio dell’Associazione nazionale magistrati, si scopre che alla procura di Gorizia manca il 52% del personale amministrativo, al tribunale di Spoleto la scopertura è del 50%, a Varese del 44%, a Sondrio del 43%, alla corte d’Appello di Genova del 47,9%, a Imperia del 47%.

Con i magistrati il discorso è lo stesso. A fronte di un organico di 10.558 unità, risulta scoperto il 13,7% dei posti. Le cose sono peggiorate rispetto all’anno scorso. In sostanza mancano 1.458 magistrati all’appello e non è affatto facile trovarli. I concorsi arrancano. Non parliamo poi dei ritardi per il Covid. Qui la voce del ministro Nordio assume sfumature di sconforto: “Dal momento della consegna della domanda dell’aspirante magistrato al momento della consegna della toga passano cinque anni. Voi capite che questo sistema non è molto razionale e, in un modo o nell’altro, dovrà essere cambiato”.

Il nodo è che non si riescono a coprire i posti a disposizione dei candidati magistrati. Ma così nel tempo le scoperture aumenteranno, anziché diminuire. Dice ancora il ministro: “Accade che, a fronte di una media di domande di circa 13 mila aspiranti, soltanto 3 o 4 mila candidati mediamente consegnino gli elaborati alla fine delle prove scritte. Di questi 3 mila, circa 400 o 500 vengono ammessi alle prove orali, durante le quali avviene un’ulteriore selezione. Il che significa che questi posti, che noi pure mettiamo a concorso e che dovrebbero essere destinati a colmare gli organici in sofferenza della magistratura, non vengono occupati”.

È una situazione che angoscia gli stessi magistrati in servizio. Si rischia un pericoloso testacoda, come spiega Giuseppe Santalucia, il presidente dell’Anm: “I vincitori del prossimo concorso per cinquecento magistrati saranno immessi in servizio non prima del 2025, mentre gli obiettivi di ridurre del 40% i tempi dei processi civili dovranno essere raggiunti, con le risorse ora disponibili, entro la fine del 2024”. Rischiamo grosso, perché il taglio dei tempi è uno degli impegni presi per avere il Pnrr e Bruxelles potrà chiederci indietro i miliardi se la velocizzazione non ci sarà.