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di Chiara Saraceno

La Stampa, 7 gennaio 2024

L’1% più facoltoso della popolazione mondiale è riuscito ad appropriarsi di due terzi della ricchezza. Il sistema protegge i grandi manager anche quando falliscono. Un anno fa l’organizzazione non profit Oxfam titolò il suo rapporto annuale sulle disuguaglianze economiche nel mondo “La sopravvivenza dei ricchi”. Esso infatti segnalava come, in un periodo caratterizzato da un susseguirsi e accavallarsi di crisi e incertezze forse senza precedenti, che provocavano un netto peggioramento nelle condizioni di vita di milioni di persone nel mondo, i più ricchi avevano aumentato la loro ricchezza e i profitti delle corporazioni avevano raggiunto livelli da record, con conseguente esplosione delle disuguaglianze a livello mondiale, tra Paesi e all’interno di ciascun Paese. In particolare, l’1% più ricco della popolazione mondiale si era appropriato di quasi due terzi di tutta la nuova ricchezza, per quasi il doppio del valore andato invece al 99% del resto della popolazione. In compenso, solo il 4% delle imposte deriva dalla tassazione della ricchezza e la metà dei miliardari ha la propria residenza in Paesi in cui l’eredità non è tassata.

In attesa del nuovo rapporto Oxfam, dati dell’Osservatorio JobPricing commentati ieri su questo giornale da Marianna Filandri suggeriscono che il lungo trend nell’aumento delle disuguaglianze documentato da Oxfam negli ultimi anni, sta proseguendo. Come hanno argomentato ormai da diversi anni molti studiosi - da Atkinson a Picketty, da Mazzuccato a Franzini, Granaglia, Raitano, per fare solo alcuni nomi - i meccanismi che sottostanno a questo fenomeno non sono solo e neppure prevalentemente quelli alla base delle disuguaglianze cento anni fa, ovvero l’origine sociale e il capitale ereditato.

Il reddito da lavoro è oggi centrale nella produzione della ricchezza. È un dato positivo, nella misura in cui lega la ricchezza all’impegno e alle capacità individuali. Ma, mentre la possibilità di sviluppare le proprie capacità e farle riconoscere continua, specie in Italia, ad essere in larga misura dipendente dall’origine sociale e da ciò che questa permette di acquisire in termini di istruzione, capitale umano e sociale, trasformazioni nel sistema economico e modalità di accesso e remunerazione delle posizioni apicali hanno trasformato queste ultime, in molti casi, in vere posizioni di rendita. Si è privilegiato in modo sproporzionato il profitto e la rendita rispetto al lavoro.

Segmenti strategici del tessuto produttivo si sono concentrati in poche mani: i nuovi settori tecnologici sono stati protetti dalle prolungate tutele previste nelle norme sui brevetti. Molti governi hanno accettato la pressione delle grandi compagnie ad abbassare le tasse, arrivando a competere tra loro in operazioni di fiscal dumping. Molte aziende sono state acquisite da società finanziarie, poco interessate alla produzione in quanto tale, bensì ai vantaggi finanziari che possono derivare da scorporamenti e dismissioni. I settori della vecchia economia in concorrenza con le produzioni dei Paesi di nuova industrializzazione sono stati favoriti dalle politiche dell’offerta, ottenendo la flessibilità al ribasso nelle retribuzioni e negli oneri per il finanziamento della protezione sociale della forza lavoro meno qualificata.

In questo contesto, come ricordava ieri Filandri, si è sviluppato per i top manager un sistema retributivo basato sui profitti riservati ai (grandi) azionisti, non sui risultati in termini di qualità e competitività del prodotto. Un sistema che protegge persino dall’insuccesso, con buonuscite molto generose, e che difende i propri privilegi controllando strettamente chi può entrare nella cerchia dei fortunati e muoversi con disinvoltura da una posizione all’altra, sia nel privato sia nel pubblico e tra l’uno e l’altro. Meccanismi in cui il merito, quando c’è, conta solo in piccola parte e certo non abbastanza per giustificare sia l’enorme sproporzione tra i redditi dei grandi dirigenti e quelli dei lavoratori medi, sia la generosa protezione in caso di allontanamento, protezione anch’essa lontana anni luce di quella concessa a chi non fa parte di questa élite, tanto più se povero, la cui meritevolezza è invece puntigliosamente verificata. Anche per questo le posizioni apicali nelle grandi imprese private o partecipate, nelle banche e nelle fondazioni sono diventate oggetto di contesa e scambio politici.

A fronte di queste disuguaglianze inaccettabili opporsi all’introduzione di un salario minimo decente legale appare quanto meno arrogante. Ma occorre avere il coraggio di provare a contrastare i meccanismi che producono le disuguaglianze denunciate da Oxfam e dall’Osservatorio JobPricing. Le proposte non mancano, dall’introduzione di un’imposta del 5% su tutte le grandi ricchezze a livello mondiale, a una ragionevole tassazione dell’eredità, al contenimento dei compensi diretti e indiretti dei grandi manager, alla rottura di posizioni monopolistiche. Molte di queste proposte hanno senso e possibile efficacia solo se basate su un consenso e un’azione a livello internazionale. Esse sono state al centro di molte iniziative della campagna per le ultime elezioni europee da parte delle forze progressiste, che avevano proprio nel contrasto alle disuguaglianze uno dei punti principali della propria agenda. Quale sia l’agenda di queste forze per le prossime elezioni e il futuro dell’Unione ancora non è dato sapere.