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di Giorgio Spangher

Il Dubbio, 17 agosto 2023

Anche in questi primi giorni di agosto non sono mancate le occasioni di riflessione e confronto in materia di giustizia penale. Tra queste, tre sembrano suscettibili di qualche riflessione di ampio respiro. La prima si ricollega al decreto-legge numero 105 con il quale il Governo ha esteso la disciplina speciale delle intercettazioni dei reati di criminalità organizzata ad ulteriori fattispecie di reato, nonché alle situazioni aggravate dal metodo mafioso e terroristico, la seconda alla sentenza della Corte Costituzionale (170/ 2023) relativa al conflitto di attribuzioni tra il Senato della Repubblica e la Procura fiorentina relativamente al sequestro di conversazioni disposte sullo smartphone di un imprenditore che aveva colloquiato con un componente del Senato.

Pur trattandosi di situazioni differenziate è possibile una riflessione comune. Invero l’intervento di urgenza che ha motivato il recente decreto ha origine dalla segnalazione da parte della Procura Nazionale Antimafia legata ad una interpretazione, peraltro consolidata, della giurisprudenza di Cassazione, assunta anche a Sezioni Unite. Il riferimento, più specificatamente, si indirizza alle possibili valutazioni sulla natura soggettiva o oggettiva dell’aggravante di cui all’art. 7 dl 152/ 1992, trasfusa nell’art 416 bis 1 cp, con il conseguente timore che una interpretazione rigorosa dell’attività posta in essere dal partecipe possa determinare l’invalidità delle relative decisioni maturate in sede di merito.

Al di là di altre situazioni nella dinamica di Governo (Ministro della Giustizia, Presidenza del Consiglio), la politica ha immediatamente dato corso a queste richieste di intervento, a prescindere dal fatto che la modifica possa cogliere nel segno. Già in precedenza, a fronte di interpretazioni rigorose della Cassazione (vedasi le Sezioni Unite Cavallo) il legislatore era immediatamente intervenuto adeguando la disciplina dell’art. 270 cpp (utilizzazione delle intercettazioni disposte in altri procedimenti) ma altri esempi, anche meno recenti, potrebbero essere fatti (vedi vicende Carnevale: timbro a secco e dei termini).

Pur sottolineando che i riferimenti sono spesso legati direttamente o indirettamente - si pensi, ad esempio, alla ostilità sulla riforma dell’abuso di ufficio, considerato quale reato spia - al fenomeno della criminalità organizzata va sottolineato come la classe politica dia alle sollecitazioni delle procure una risposta immediata.

Di tutt’altro segno, anzi opposto, è quello legato alla sentenza della Corte Costituzionale con la quale i giudici della Consulta hanno affermato che le comunicazioni WhatsApp non sono documenti - come ritenuto costantemente dalla giurisprudenza - ma corrispondenza, con tutte le conseguenze che ciò determina sia per i membri del Parlamento ma anche per tutti gli imputati.

Ora, è sicuramente corretto affermare che ai sensi della Costituzione spetta alla magistratura l’interpretazione della legge. È altresì noto che la magistratura si consideri proprietaria della giurisdizione, sicché non manca di individuare prassi e letture normative, in modalità creativa, ritenendo di farsi interprete degli obiettivi di funzionalità del sistema per un più sicuro accertamento dei reati. Molto spesso le letture confliggono con quanto è corrispondente alla legge secondo la ricostruzione che ne fa la dottrina, anche in linea con le previsioni costituzionali e sovranazionali.

Dinanzi a questa situazione, a più riprese evidenziata nei commenti alle decisioni del supremo collegio, la politica resta del tutto silente. Solo a seguito delle decisioni della Corte Costituzionale (ultimo caso è quello riferito), della Corte di Giustizia (come nel caso dei tabulati ancorché relative ad altri Stati) o della Cedu il legislatore è costretto ad intervenire correggendo in qualche modo la normativa, ovvero la giurisprudenza (sempre, peraltro, con interpretazioni restrittive) deve adeguarsi. Il problema è costituito dal fatto che “medio tempore” (quasi sempre decenni, nel caso dei tabulati un ventennio e mancano ancora le garanzie sulla geolocalizzazione) gli imputati sono privati di un altro standing di garanzia perché come è noto il nostro sistema mette nelle mani dei magistrati l’accesso a due di questi strumenti di garanzia e per il ricorso alla Cedu è necessario esaurire interamente il percorso giudiziario.

La politica così attenta alle ragioni di accertamento dovrebbe dimostrare una maggiore sensibilità per il rispetto delle garanzie imposte dalla Costituzione e dalla disciplina internazionale sovraordinata. La terza riflessione è suggerita dall’intervento di Edmondo Bruti Liberati su questo giornale, dove viene affrontato l’argomento dell’etica pubblica, dell’informazione giudiziaria e della giustizia penale. La questione del rapporto tra responsabilità penale e responsabilità politica è complessa e richiederebbe un’analisi molto articolata della realtà storica, sociale culturale, religiosa e politica di un Paese, anche perché tutto ciò condiziona fortemente i temi di cui si parla: coesione sociale e condivisione del sistema istituzionale.

Del resto, gli stessi riferimenti ad altri Stati da parte di Bruti Liberati, in primis gli Stati Uniti, sembrano datati (il fenomeno del trumpismo segnerà fortemente la storia di quel Paese) e non trasferibili alle situazioni italiane della stampa, che risente di impostazioni ideologiche se non addirittura partitiche (non vedo premi Pulitzer tra i nostri giornalisti) - e della politica (le modalità della convalida della elezione di George W. Bush contro Al Gore, del tutto improponibili nelle dinamiche italiane).

Venendo non senza molte semplificazioni al nostro Paese, deve affermarsi che, considerata la sua struttura sociale e culturale, frutto della sua evoluzione storica e la sua conseguente articolazione politica, il tema della eticità è stato da tempo ritenuto marginale essendo stato sostituito dalla contrapposizione partitica destinata ad alterare gli equilibri politici tra le forze in campo, soprattutto tra quelle di maggioranza e di Governo (stante la collocazione internazionale del nostro Paese). Il riferimento va anche alle commissioni di indagine parlamentare (Telekom Serbia, sistemi bancari…).

Sotto questo aspetto la questione si è sempre più spostata alle implicazioni delle vicende giudiziarie che hanno rappresentato il tema privilegiato del riferito scontro politico. Sono state poche in questi anni le dimissioni, i passi indietro di vari esponenti per ragioni etiche, morali e di opportunità.

Quasi tutti gli episodi significativi che si possono ricordare (dal caso Montesi Piccioni con la fine del doroteismo all’interno alla Dc, fino alla vicenda dello scandalo Lockheed con le dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone) sono stati contrassegnati da vicende giudiziarie. La stessa “questione morale” sollecitata da Berlinguer ha condotto al fenomeno di Mani pulite e al crollo della Prima repubblica; del resto, è significativa in tal senso l’eliminazione dalla Costituzione della autorizzazione a procedere e tutta la legislazione sull’incandidabilità condizionata da giudizi di responsabilità accertati in sede penale. È conseguentemente evidente che l’iniziativa giudiziaria abbia un forte rilievo e che l’abbia per il suo solo avvio a prescindere da quelli che potranno essere gli esiti processuali, i quali, ancorché favorevoli a indagato e imputato, avranno determinato effetti irreversibili (come tanti episodi hanno dimostrato).

La riferita forte contrapposizione politica, alla quale la stampa e la magistratura non sono del tutto estranee, non consente di superare facilmente il problema che indubbiamente deve trovare nella classe politica un suo maggiore senso di responsabilità, nella magistratura un senso misurato di comportamenti di attività rispetto ai diritti, nella legislazione la predisposizione di strumenti di garanzia il cui significato va trasfuso all’opinione pubblica, così da chiarire meglio il senso delle iniziative giudiziarie alla luce del principio costituzionale di considerazione di innocenza.