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di Gianluca Mercuri

Corriere della Sera, 15 novembre 2023

L’atteggiamento e i piani della ultradestra israeliana potrebbero causare una deflagrazione regionale con devastanti conseguenze globali. La guerra provocata dal massacro terroristico del 7 ottobre è già la più sanguinosa mai combattuta tra israeliani e palestinesi dopo quella che nel 1948 portò alla nascita dello Stato ebraico. Il peggior pogrom dalla Shoah non poteva che suscitare nel mondo libero un’ondata di solidarietà con il Paese aggredito, esattamente com’è avvenuto nei confronti dell’Ucraina. Gli sviluppi del conflitto, e le sue prospettive, cominciano però a seminare dubbi tra gli alleati di Israele e in ampi settori della sua opinione pubblica.

La domanda è: c’è il rischio che la legittima risposta a Hamas - con la conseguente necessità di liquidarla una volta per tutte - si trasformi da guerra esistenziale di Israele a guerra votata all’annessione definitiva di tutte le terre che i due popoli si contendono da più di un secolo? La questione è destabilizzante almeno quanto quella del numero di vittime civili a Gaza tollerabile dall’Occidente, una soglia indefinibile ma oltre la quale la “guerra giusta” può vedere compromessa la propria legittimità morale. Una soglia che sia il segretario di Stato Usa Blinken - “Troppi morti” - sia il presidente francese Macron - “Non possono continuare a uccidere donne e bambini” - hanno di fatto dichiarato superata.

Le pressioni occidentali sono in parte contraddittorie: si ammette che eliminare Hamas è legittimo e necessario, sapendo però che è impossibile farlo senza una strage finché Hamas si mescola ai civili. In teoria, lo “spostamento” della popolazione imposto da Israele dovrebbe servire a limitare la carneficina. Già più di 800 mila persone hanno lasciato il Nord della Striscia, ma non è affatto escluso che l’operazione di terra si sposti poi a Sud. Di certo, nemmeno a guerra conclusa gli sfollati potranno rientrare subito in case che non ci saranno più.

Perché la tragedia di Gaza non passi alla storia come una deportazione di massa, Israele dovrebbe dunque impegnarsi a restituire la Striscia, senza più Hamas, ai suoi abitanti. La comunità internazionale e il leader dell’opposizione israeliana, Yair Lapid, individuano nell’Autorità nazionale palestinese - che è corrotta e debole, ma riconosce Israele da 30 anni e ha combattuto contro Hamas una sanguinosa guerra civile - l’unico soggetto plausibile per il futuro governo della Striscia e il riavvio del processo di pace. Ma Benjamin Netanyahu lascia intendere tutto fuorché un disimpegno, e ancora una volta esclude l’Anp dal futuro.

Un interregno governato da Israele pare inevitabile. Ma il premier è sempre più allineato agli estremisti, al punto da sembrare tentato da una soluzione drammatica della questione palestinese, da lui nascosta per anni nell’illusione di farla dimenticare perfino ai diretti interessati. È il timore espresso a Lorenzo Cremonesi dall’ex premier Ehud Olmert: “Corriamo il pericolo gravissimo che Netanyahu e i suoi alleati fanatici approfittino della crisi di Gaza per scacciare i palestinesi da tutti i territori occupati”. L’impegno a lasciare la Striscia e a riconoscere ai palestinesi l’autodeterminazione, aggiunge, è essenziale perché “solo così la comunità internazionale potrà sostenere la nostra battaglia contro Hamas”.

Il vero epicentro della contesa è dunque la Cisgiordania. Lì restano gli ultimi lembi di terra su cui possa sorgere uno Stato palestinese, reso arduo dalla presenza di mezzo milione di coloni nelle terre che la destra messianica “rivuole” in quanto corrispondenti alle bibliche Giudea e Samaria. Le frange oltranziste sono sempre più aggressive, e cresce il timore che vogliano provocare una nuova Intifada per innescare un altro conflitto in stile Gaza.

Israele è unita contro Hamas, ma divisa da prospettive così oscure. Il giornalista di Haaretz Amir Tibon viveva nel kibbutz di Nahal Oz, e il 7 ottobre si è salvato nascondendosi per dieci ore con la moglie e le figlie: “Quel giorno Hamas sapeva di aver firmato il certificato di morte di migliaia di abitanti di Gaza”. Ora Hamas va distrutta, ha spiegato, perché altrimenti non ci sarà mai pace. Lo stesso Tibon, dopo che due ministri hanno ipotizzato l’atomica su Gaza e una nuova Naqba - una catastrofe palestinese come nel ‘48 - ha poi scritto: “È un danno immenso agli sforzi di Israele per convincere i governi stranieri e l’opinione pubblica globale che sta combattendo una guerra giusta per la sicurezza dei suoi cittadini, non per annientare i gazesi e rioccupare la terra. Purtroppo, quasi ogni giorno uno dei membri estremisti della coalizione causa questo tipo di danni”.

Le scelte future del governo israeliano inquietano l’America e i governi occidentali, che vorrebbero uscire dalla crisi con la prospettiva di uno Stato palestinese, e non con il definitivo affossamento di una questione colpevolmente rimossa da tutti. Se i piani dell’ultradestra israeliana si concretizzassero il rischio sarebbe, al contrario, quello di una deflagrazione regionale con devastanti conseguenze globali. Anche per questo il dopoguerra a Gaza e in Cisgiordania ci riguarda tutti.