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di Donatella Stasio

La Stampa, 12 dicembre 2022

L’idea “giustizialista” della pena rivendicata dalla premier è incompatibile con i tempi. Meloni e Nordio vengano a guardare in faccia la realtà: non c’è rieducazione dove c’è sopruso.

Il 21 dicembre - lo giurano - uscirà acqua potabile dai rubinetti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, tristemente noto per l’”ignobile mattanza” di detenuti andata in scena il 6 aprile 2020 nel reparto Nilo, il più moderno di questo parallelepipedo aperto nel 1996, fresco di costruzione avviata negli anni 80.

Eccola qui la “modernità” penitenziaria, promessa da tutti i governi e puntualmente rilanciata dal guardasigilli Carlo Nordio, con tanto di commissario straordinario. A Santa Maria, la “modernità” non contemplava il preventivo allaccio alla rete idrica comunale e perciò gli ospiti del carcere hanno fatto a meno dell’acqua per 26 anni, arrangiandosi con bottiglie di minerale da due litri al giorno per lavarsi e dissetarsi, all’interno di reparti chiamati, paradossalmente, con il nome di fiumi: Senna, Tevere, Tamigi, Danubio...

Il danno e la beffa. Non l’unica, di questa “moderna” galera che ha soppiantato il vecchio carcere borbonico e che si staglia in una landa desolata, disabitata, priva di trasporti pubblici, paludosa, infestata da insetti, dove, a pochi metri, giganteggia una discarica di rifiuti che costringe detenuti e poliziotti a convivere con esalazioni nauseabonde...

Chissà se questo “altrove”, con i suoi 852 detenuti e 500 poliziotti, risponde abbastanza all’idea “giustizialista” del carcere, rivendicata dalla premier Giorgia Meloni. O se invece è “una deviazione dai principi minimi di civiltà giuridica su cui battersi fino alle dimissioni”, per usare le parole del ministro, ma sulle intercettazioni...

E chissà se il “garantiste” Nordio verrà qui a Santa Maria per guardare in faccia la modernità, chiedere scusa, condividere una sconfitta che reclama un’assunzione di responsabilità collettiva, dimostrare che il carcere non è un “altrove” ma una porzione della Repubblica. E a battersi per tutto questo, fino alle dimissioni. Al ministro non può certo sfuggire che senza una piena condivisione del senso di comune appartenenza è impossibile “costruire” una pena sensata, rispettosa della dignità delle persone e della sicurezza collettiva. È impossibile la modernità.

Lo hanno capito i “cittadini” del “Francesco Uccello” - detenuti, poliziotti, dirigenti, educatori, magistrati di sorveglianza - che nei giorni scorsi hanno messo in scena proprio il senso di comune appartenenza. Una coralità inedita a Santa Maria, da sempre specchio della cultura “giustizialista” del carcere, diciamo pure punitiva, quella che piace a Fratelli d’Italia, al punto da presentare subito, a inizio legislatura, una proposta di riforma della Costituzione (articolo 27) per ridimensionare la “funzione rieducativa” della pena, ritenuta un ostacolo alla sicurezza collettiva, addirittura un “valore tiranno” rispetto alla prevenzione, ha sentenziato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro.

Luoghi comuni. La storia di Santa Maria è paradigmatica della condizione delle nostre carceri, moderne o antiche che siano, con 56.524 detenuti presenti al primo dicembre, 8.822 in attesa di giudizio di primo grado e 40.122 condannati definitivi, dei quali 8.200 con pene inferiori a 3 anni. Nei primi 11 mesi dell’anno sono morte 194 persone, e, di queste, 79 si sono suicidate, un numero di gran lungo superiore alla media di suicidi negli ultimi nove anni (44). Torino, Ivrea, San Gimignano, Sollicciano, Bari... l’emergenza diritti fondamentali è ovunque, fatte salve davvero poche eccezioni.

L’invivibilità dei luoghi, l’assenza di connessioni con il territorio, il mancato rispetto della dignità umana allontanano qualunque seria prospettiva di rieducazione. Anzi, sono occasione di recidiva, come ben spiegano gli economisti Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese sulle pagine dell’American Economie Journal: Applied Economics di ottobre. Con l’articolo “Leave the door open?”, gli autori analizzano la relazione tra condizioni carcerarie e recidiva e la risposta alla domanda del titolo è: sì, le porte vanno aperte per far respirare al carcere l’aria buona della Costituzione.

I due economisti dimostrano che un anno trascorso in un carcere “aperto e umano” rispetto a un carcere “chiuso e duro” riduce la recidiva di 6-10 punti percentuali. Dunque, là dove il carcere è necessario, bisogna investire sulla Costituzione se davvero si vuole investire anche sulla sicurezza collettiva. Non è un’opinione ma un dato scientifico e qualunque governo, se fosse leale verso il Paese, dovrebbe muoversi di conseguenza.

D’altra parte, uno dei maggiori filosofi liberali del diritto, Ronald Dworkin, ricordava che la violazione dei diritti umani “mortifica l’orgoglio, l’onore di una nazione” mentre il loro rispetto è the trump, la briscola, per vincere ogni partita, anche sulla sicurezza. Ecco, dunque, la vera questione politica e sociale: costruire una condivisa cultura costituzionale della pena.

Ci provò, nel 2016, l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando con gli Stati generali sull’esecuzione penale, dando seguito al messaggio alle Camere inviato nel 2013 dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il quale ammoniva “le istituzioni e la nostra opinione pubblica a non scivolare nell’indifferenza”.

Solo dopo aver condiviso una solida “mentalità costituzionale” - così l’avrebbe chiamata Paolo Grossi, presidente emerito della Consulta - avrà senso progettare nuove carceri. Finché questa destra continuerà invece a coltivare una cultura “giustizialista” della pena, cavalcando slogan come “marcire in galera” o “buttare la chiave”, la modernità sarà sempre e solo un parallelepipedo in una landa desolata, un contenitore di corpi, un altrove esistenziale degradato, un “cimitero dei vivi”, per dirla con i Costituenti, reduci dalla galera del ventennio fascista.

Ciò spiega l’indifferenza ultraventennale sulla mancanza d’acqua a Santa Maria, trasversale appunto a governi di destra e sinistra e nonostante le numerose denunce. Nel 2008, la radicale Rita Bernardini presentò all’allora guardasigilli Alfano un’interrogazione parlamentare implacabile, in cui ricordava che l’approvvigionamento idrico avveniva sfruttando alcuni pozzi, la cui acqua richiedeva continui interventi di potabilizzazione e che, da un monitoraggio delle falde acquifere della zona, da parte del Comando militare della Nato, era emerso che in quelle acque vi fosse la presenza di una concentrazione 50 volte superiore alla norma di batteri coliformi e di coliformi fecali.

Nel 2017, il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma segnalò le pesanti ricadute sulla qualità della vita detentiva, sulla salute dei detenuti e sulla sicurezza dell’Istituto, chiedendo di affrontare la situazione “con la massima urgenza”. A Santa Maria i lavori per l’acqua sono partiti solo 25 anni dopo l’apertura del carcere, il 6 aprile 2021, con la promessa di terminarli in 300 giorni (ne sono già trascorsi 525)...

L’anno prima, stesso giorno e stesso mese, si era consumata “l’ignobile mattanza” dei detenuti, come l’ha definita il Gip del Tribunale di Santa Maria. Per quei fatti, proprio in queste settimane si è aperto il dibattimento nell’aula bunker della Corte d’assise: 106 gli imputati, tra agenti, funzionari medici e dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), per reati che vanno dalla tortura all’omicidio colposo, dall’abuso di potere al falso in atto pubblico.

E decine di autorità potrebbero essere chiamate a spiegare l’inspiegabile: il silenzio, l’indifferenza, la mancanza di attenzione. Alessandro Margara, che per una vita è stato magistrato di sorveglianza e per un breve periodo capo del Dap, diceva che “il volto violento del carcere non si deve tenere segreto ma bisogna avere l’onestà di guardarlo fino in fondo, con lucidità”. Lo fecero Draghi e Cartabia, scesi a Santa Maria, nel pieno della bufera giudiziaria, per chiedere scusa, appunto, riconoscendo che “non c’è rieducazione dove c’è sopruso” e che “per far voltare pagina al carcere, bisogna guardarlo in faccia”.

Faranno lo stesso Meloni e Nordio? Non è più tempo di indifferenza. Anche a Santa Maria vogliono voltare pagina e sarebbe un errore non cogliere il segnale che viene dalla cittadella carceraria dove, dopo il terremoto delle violenze del 2020, è saltata tutta la catena di comando e si fatica a trovare un equilibrio nuovo, un senso, persino un’identità.

Il teatro ha offerto a tutti l’occasione per costruire una storia diversa da quella vissuta per 26 anni. La storia di una comunità. Detenuti, poliziotti, magistrati di sorveglianza, educatori, direttrice hanno lavorato insieme per più di un mese e il 25 novembre - al Teatro comunale di Caserta, di fronte a 400 spettatori tra cui i vertici giudiziari della Campania, poliziotti e parenti di detenuti - hanno portato in scena “Epoché (Sospensione)”, storia di detenzione, di speranza, di libertà, di riconciliazione.

“Una straordinaria opera corale che racconta la voglia di riscatto e di cambiamento di noi tutti, qui in Campania”, dice Lucia Castellano, da agosto alla guida del Provveditorato delle carceri della Regione. Anima e regista dello spettacolo, un magistrato di sorveglianza, Marco Puglia, che nella notte del 6 aprile 2020 fece l’ispezione al Nilo, teatro della “mattanza”.

Nella filosofia greca, Epoché era la sospensione avvertita come necessaria ogni qualvolta non vi fossero sufficienti elementi per giudicare. Qui è l’invito allo spettatore a non affrettarsi a giudicare chi è segnato dal marchio del carcere e ad ascoltare chi si sente spesso inascoltato. Il perché, Puglia lo spiega così: “Siamo tutti attori, nessuno escluso, del destino della nostra società. Solo esibendoci insieme possiamo plasmare e modellare questo destino, nel perseguimento del bene comune”. Insieme, appunto.