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di Riccardo Rosa

napolimonitor.it, 28 luglio 2023

Carmine Corallo era un detenuto di settantuno anni. Si trovava nel carcere di Poggioreale, condannato per truffa e rapina. Era malato ai polmoni ed è morto venerdì 21 luglio all’ospedale Cardarelli, dove era stato trasferito d’urgenza dal carcere napoletano. Sebbene già nel 2015 gli fosse stata riconosciuta l’incompatibilità con il regime detentivo, un nuovo cumulo di pena aveva fatto sì che lo scorso maggio Corallo rientrasse a Poggioreale nonostante le sue gravi condizioni di salute. Condizioni che erano in costante peggioramento, tanto che il suo legale, Gandolfo Geraci, aveva presentato un mese fa una nuova istanza di scarcerazione, ignorata dall’autorità giudiziaria. La richiesta era quella di permettere al detenuto di morire tra le mura della propria casa, dignitosamente, e non all’interno di una struttura carceraria. “Non voglio morire qui dentro!”, aveva detto Corallo al suo avvocato quando erano stati l’ultima volta a colloquio.

Considerando i dati degli ultimi tre anni, i decessi per “morte naturale” in carcere sono stati 129 nel 2022, 91 nel 2021, 93 nel 2020. A questi numeri vanno aggiunti quelli relativi ai suicidi (quasi un terzo dei decessi totali, in media, negli ultimi dieci anni), che come spiega il dossier Morire di carcere del Centro studi di Ristretti Orizzonti, sono spesso legati a motivi di salute, e al sentimento di abbandono e disperazione che travolge le persone ammalate e detenute - anche non gravemente - in carcere. “I tribunali - si legge nel dossier - applicano in maniera molto disomogenea le norme sul differimento della pena per le persone gravemente ammalate e spesso la scarcerazione non viene concessa perché il detenuto è considerato ancora pericoloso, nonostante la malattia che lo debilita totalmente”.

Anche l’associazione nazionale dei medici penitenziari ha più volte denunciato tagli alle risorse, diminuzione del personale e “impossibilità di garantire a tutti i detenuti il loro diritto alla salute”, una privazione che diventa quasi una condanna nel caso dei detenuti sieropositivi. L’Associazione nazionale per la lotta contro l’Aids denuncia che “almeno il settanta per cento delle persone sieropositive rinchiuse nelle carceri non riceve cure corrette”; a peggiorare la situazione ci sono inoltre i continui trasferimenti e “la possibilità, frequente che assieme al detenuto non si sposti la cartella clinica, con la conseguente sospensione forzata della terapia, l’annullamento dei risultati raggiunti e il rischio di andare incontro a infezioni opportunistiche”.

Nel caso specifico, l’esposto presentato dall’avvocato Geraci dopo la morte di Corallo evidenzia un certo livello di superficialità da parte dei medici del carcere e del magistrato di sorveglianza, che si sono rimpallati per un mese una fitta documentazione ritenuta insufficiente per procedere alla scarcerazione del detenuto. Uno scollamento totale della realtà, tanto più considerando la qualificazione di delinquenza “comune” attribuita a Corallo, che non poteva essere pericoloso, nelle condizioni estreme in cui si trovava, né essere in grado di commettere nuovi reati. Nell’esposto, il legale di Corallo chiede il sequestro della cartella clinica e del fascicolo ricevuto dal magistrato di sorveglianza, che aveva chiesto ai medici ulteriori informazioni per poter decidere su un caso che appariva invece già molto chiaro. Una tendenza che pare sistemica all’interno del Tribunale di sorveglianza di Napoli, la cui presidente, Patrizia Mirra, ha fama di poca disponibilità al dialogo con gli avvocati, le associazioni e le istituzioni di garanzia in ambito penitenziario.

Il tema, tuttavia, va ben oltre i confini del tribunale napoletano, e necessiterebbe di un intervento urgente a livello legislativo. L’articolo 147 del codice penale prevede infatti genericamente il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per chi si trova in condizioni di “grave infermità fisica”, una dicitura che implica una forte discrezionalità da parte del magistrato di sorveglianza chiamato a esprimersi sulla scarcerazione, e a cui andrebbe con la massima urgenza e necessità aggiunto, quantomeno, l’obbligo di trasferimento alla detenzione domiciliare in presenza di una malattia cronica irreversibile.

Al contrario, l’ossessione per la certezza della pena e per la presunta necessità di reclusione in carcere, fanno sì che, sebbene il tema della scarcerazione dei detenuti ammalati sia emerso in maniera eclatante nel corso della pandemia di Covid-19, il dibattito nel merito sia ancora al grado zero. Un caso eclatante, proprio durante i mesi di pandemia, fu quello della campagna messa in atto da alcuni quotidiani nazionali e dalla trasmissione di La7 Non è l’arena, che dopo alcuni provvedimenti presi dalla magistratura a tutela di persone gravemente ammalate, soffiò sul fuoco diffondendo informazioni parzialmente o completamente inesatte riguardo la presunta “messa in libertà di centinaia di boss mafiosi”. Quella campagna penal-populista ebbe l’effetto di condizionare le successive scelte politiche e amministrative, di provocare addirittura le dimissioni dei vertici dell’amministrazione penitenziaria e la modifica di un provvedimento emanato nell’ottica del rispetto del diritto alla cura garantito dalla Costituzione.

Proprio in epoca di pandemia (rapporto annuale 2021), infine, il Comitato del consiglio d’Europa sulla prevenzione della tortura ha ripreso i governi di praticamente tutti gli stati europei ritenendo insufficienti gli sforzi per il decongestionamento delle carceri e in particolar modo la mancata implementazione delle misure alternative alla detenzione in prigione: “L’uso delle misure non reclusive - si legge nel rapporto - resta modesto in molti stati, soprattutto in fase pre-processuale, e non dà alcun reale contributo alla riduzione del numero dei detenuti ristretti in carcere. È di assoluta urgenza che i governi lavorino con i parlamenti, i giudici, i pubblici ministeri e le amministrazioni penitenziarie per un consistente decongestionamento delle carceri con azioni concrete”. Va sottolineato che uno dei temi su cui maggiormente si soffermano i successivi lavori del Comitato è il consistente passo indietro fatto in termini di accesso alle misure alternative per motivi di salute dalla maggioranza dei paesi europei, che non hanno colto le indicazioni e le poche esperienze timidamente positive emerse durante la fase pandemica in termini di tutela dei diritti dei detenuti ammalati, e conseguente decongestionamento delle strutture.