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di Francesco Petrelli

L’Unità, 1 dicembre 2023

L’epoca buia del terrorismo segnò l’avvento dello strapotere della magistratura, che dagli anni 70 entrò sempre più a gamba tesa (vedi Mani Pulite) sugli equilibri della nostra democrazia. Ha ricordato con nostalgia, il dott. Spataro, i tempi del terrorismo allorquando magistratura e politica, assieme, scrivevano le leggi. Si trattava allora di una terribile emergenza, di una pagina buia della nostra democrazia che secondo molti commentatori ed analisti, lasciò una traccia indelebile negli equilibri politici ed istituzionali del Paese, alterati proprio nel fondamentale rapporto fra quei due diversi poteri. Il sentir evocare quella drammatica stagione solo come un momento favorevole per la storia dei rapporti fra politica e magistratura lascia per questo piuttosto perplessi.

Sono molti, infatti, a rammentare come fu, proprio in quei terribili anni, che al di là degli esiti di quei rapporti di cui il dott. Spataro ha ricordato le virtù, ebbe a consumarsi quel sovvertimento negli equilibri fra i poteri che avrebbe segnato il definitivo debordare del potere giudiziario e - complici anche la lotta alla mafia e Mani pulite - l’inizio di quella che è stata non a caso definita, la Repubblica giudiziaria.

Una democrazia condizionata da una presenza costante della magistratura associata e delle Procure nelle politiche giudiziarie del Paese, resa succube da un potere di interdizione sulle riforme in materia e caratterizzata da un debordante assetto del Consiglio Superiore della Magistratura, autoassegnatosi competenze e virtù neppure immaginate nel disegno del costituente.

Ma se questo squilibrio è purtroppo serio, grave e reale, non è affatto serio il confronto che ne segue. Sono infatti oramai più di trenta anni che si assiste a una deriva insopportabile nella quale le parti in causa, politica e magistratura, vanno sviluppando in un tragico siparietto, a scapito del Paese, il loro irrisolto dialogo conflittuale privo di alcuna concreta prospettiva.

Un conflitto solo apparente che in realtà giova a entrambi i contendenti interessati solo a mantenere le loro posizioni e a conservare intatto il loro status quo. E appare ancor più triste, per questa ragione, assistere a queste improvvide grida di “al lupo al lupo” da parte di una politica che non è stata mai capace di colmare quel vuoto di competenza, di prestigio e di quel minimo di autostima necessari al riequilibrio delle forze.

Inutile denunciare complotti se non si ha neppure il coraggio di portare a termine una riforma semplice e coerente con la costituzione come la separazione delle carriere. Se non si ha neppure la forza di operare quella seria e minima riforma ordinamentale che metta fine al presidio dei magistrati all’interno del Ministero della Giustizia, dove si scrivono quelle stesse leggi che i giudici e i pubblici ministeri dovrebbero invece soltanto applicare.

Salvo che questo compito non venga assegnato a Commissioni ministeriali nelle quali la presenza dei magistrati è sempre quella di tre parti ad una. Perché è lì in questi gangli di potere che si annida il vero problema. Si tratta di quella stessa politica che rimanda da trent’anni quelle piccole ma radicali riforme della giustizia e dell’ordinamento giurisdizionale che sole avrebbero potuto restituire un assetto maturo a questa nostra democrazia, in perpetuo altalenante fra l’attacco ai soli tutori della legalità e le rampanti prodezze del partito dei giudici, e restituire soprattutto ai cittadini un processo equo e giusto ed una giustizia degna di questo nome.