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di Walter Veltroni

Corriere della Sera, 24 marzo 2024

L’allarme: in Europa nove milioni di adolescenti convivono con la difficoltà mentale. Bisogna dare risposte e agire in fretta. Ma se quella che stiamo vivendo fosse la più invisibile, la più impalpabile delle pandemie, quella dell’infelicità? Non prende i polmoni, ma impedisce spesso di respirare, stringe il cuore, accelera il battito, spegne gli occhi. Non è solo un’impressione, peraltro assai vivida, ma sono i dati delle analisi e delle grida inascoltate d’allarme di psicologi, psichiatri, neuropsichiatri di tutto il mondo. È passata in totale indifferenza - vuoi mettere con i turbamenti dei sequestrati del Grande fratello Vip? - la notizia che in Europa si contano nove milioni di adolescenti con forme di problemi della salute mentale, segnati da depressione, ansia, disturbi comportamentali, a cominciare da quelli alimentari. O che il suicidio è divenuta in questi anni la principale causa di morte tra i 15 e i 19 anni.

Sul nostro giornale Milena Gabanelli si è incaricata di documentare l’incidenza inedita dei suicidi, uno ogni sei giorni, tra gli operatori delle forze dell’ordine. Margherita De Bac ci ha informato che quattro milioni di italiani si svegliano tra le tre e le cinque del mattino non per ragioni di lavoro, ma per la sindrome del “risveglio precoce”. Ogni due giorni, sono i dati a rivelarlo, qualcuno si suicida in un carcere italiano. E poi c’è la sensazione diffusa di fragilità che lo specchio dei social propone ogni istante.

“Spesso il male di vivere ho incontrato” scriveva Montale e con esso ogni generazione della storia ha imparato a fare i conti. Ma ci sono dei momenti, nella vicenda umana, in cui il disagio assume caratteri pandemici, diventa non battaglia personale per la conquista della serenità, ma problema collettivo, con ampi riflessi sociali, culturali, civili, persino politici. Ci sono ragioni che determinano questo stato d’animo. Questo nuovo millennio, iniziato nel rogo delle Torri Gemelle, è stato segnato dall’irrompere della paura. Finito il Novecento nel segno, forse semplificato da un ottimismo ormai remoto, della fine della guerra fredda, il primo ventennio dei Duemila è stato dominato dall’irrompere di tensioni che sono entrate in ogni casa: minaccia alla salute, alla sicurezza ambientale, alla propria condizione sociale e finanziaria, ora persino a ciò, che almeno in occidente, si pensava garantito: il vivere in pace e in democrazia. Potremmo, in questo contesto, non essere angosciati? Non avere più preoccupazioni che sogni, più ansia che energia?

La fine dei grandi sogni di emancipazione, del progetto razionale di cambiamenti possibili della propria condizione umana - le grandi conquiste sociali e quelle dei diritti - ha contribuito a determinare una condizione di solitudine, un ritrarsi dalla partecipazione collettiva che ha la sua più visibile manifestazione nel crollo verticale della partecipazione al voto e un deficit di fiducia nel futuro che è testimoniato plasticamente dalle culle vuote e dalle aule svuotate.

Vedere questa pandemia, sottrarla allo stigma dell’indicibile o del disonorante, significa iniziare ad approntare dei rimedi. Alcuni attengono a decisioni concrete come il ripensamento del ruolo delle strutture scolastiche, da trasformare in luoghi permanentemente aperti per la formazione e la socialità giovanile, l’affrontare il disagio psicologico come un problema naturale e risolvibile, il dare ai social regole stringenti che ne impediscano un uso devastante della dignità umana, il riportare le carceri a una finalità di recupero e non di segregazione, il recuperare una funzione attiva ai soggetti dell’intermediazione.

“Scoprire che in certe parti del mondo i bambini e i giovani vivono l’equivalente di una crisi di mezza età richiede misure immediate da parte dei governi”, ha affermato il curatore del World Happiness Report nel quale si afferma che, per la prima volta, i giovani americani sono la “generazione più infelice”.

Siamo immersi ogni giorno, con quella testa piegata sul cellulare, ad un bombardamento di notizie frammentate, coriandolizzate, che servono ad agire sulla nostra sfera emotiva recidendo la dimensione del senso delle cose. Non esiste più il racconto che lega, unisce, definisce il prima e il dopo delle cose, le contestualizza. La comunicazione del frammento, dominante in rete, ci rende più indifesi, più fragili, più soli. Inchiodati in un presente del quale si avverte la futile caducità, isolati dagli altri in una illusione di centralità, ci si sente molto più smarriti. Le meraviglie indiscutibili della tecnologia, che hanno reso migliore e più semplice la nostra vita, hanno però una loro ferocia antropologica. Il discorso digitale si nutre quotidianamente di semplificazione, odio, rancore sociale. In definitiva di solitudine, la condizione nella quale si alimenta il quotidiano degli haters.

Il sentimento prevalente di questo tempo è la paura, in primo luogo la paura dell’altro da sé. Isolati e incattiviti, paralizzati da una paura che diventa motore di richieste di semplificazione autoritaria o di rimozione di ogni differenza, considerata blasfema, i contemporanei sono rinchiusi in una gabbia di asfissiante attualità e spinti ad isolarsi, a praticare forme più o meno integrali di ritiro, di Hikikomori.

Ha scritto Byung- Chul Han: “La crescente povertà di esperienze di contatto ci rende malati. Mancandoci completamente l’esperienza del contatto, restiamo terribilmente intrappolati nel nostro ego. La povertà di esperienze di contatto significa in ultima analisi una povertà di mondo. Il che genera in noi depressione, isolamento e angoscia”. Se esiste una pandemia del disagio e dell’infelicità che proietta le sue ombre sul vivere civile, con rischi elevati, allora bisogna agire in fretta, ciascuno nel suo, per rafforzare il contatto, la socialità, lo spirito di comunità, la rigenerazione di speranze più forti della paura.