di Luigi Ferrarella
Corriere della Sera, 7 settembre 2024
“La condizione più adeguata alla situazione di salute del paziente” Renato Vallanzasca “è una Rsa, struttura residenziale per persone affette da Alzheimer/demenza”, perché il suo attuale stato “rende difficile la compatibilità con il regime carcerario, anche per la necessità di assistenza sempre più intensa e continuativa”. A dirlo non è più la difesa dell’archetipo di “bandito” degli anni 70-80, in carcere da 52 dei suoi 74 anni per scontare quattro ergastoli per omicidi, rapimenti, rapine ed evasioni: per la prima volta, invece, lo attesta una relazione al Tribunale di Sorveglianza di Milano dell’ambulatorio di psichiatria del servizio di medicina penitenziaria dell’Asst San Paolo, proponendo appunto “il differimento della pena in residenza sanitaria assistenziale”, o in subordine, “se non possibile” questa soluzione, “il trasferimento” da Bollate “in un istituto penitenziario dotato di Sai-Sezione di assistenza sanitaria intensiva”.
Martedì prossimo, in udienza, la giudice di sorveglianza Carmen D’Elia deciderà sulla istanza dei legali Corrado Limentani e Paolo Muzzi. La relazione, nei cui dettagli fisici qui non si entrerà, mostra quanto il personaggio Vallanzasca (alimentato da lui stesso anche durante la detenzione-record, ma al contempo sfruttato da non pochi attorno a lui da quando non c’è più con la testa) non abbia ormai più nulla a che vedere con la persona Vallanzasca, più simile a tanti altri anziani minati da decadimento cognitivo: “Ha perso completamente il controllo” della propria quotidianità, “non è assolutamente in grado di badare” a sé, “è disorientato nel tempo e nello spazio”, “a tratti emerge la sofferenza di non riuscire a esprimere con il linguaggio quello che si produce nel suo pensiero”, ed è ormai “visibile lo stato di prostrazione” di quanti nel carcere di Bollate lo aiutano, “non formati e preparati per la gestione di un paziente con queste criticità”.
Nel 2010 Vallanzasca aveva ottenuto il beneficio della semilibertà dopo oltre un trentennio di galera dovuta a una carriera criminale costellata in particolare tra il 1972 e il 1987 dalle uccisioni di quattro poliziotti in conflitti a fuoco durante fughe da rapine o in posti di blocco (Bruno Lucchesi, Antonio Furlato, Michele Giglio, Giovanni Ripani); dall’assassinio in carcere di un detenuto, Massimo Loi; da sequestri come quello di Emanuela Trapani, liberata dopo un riscatto di 1 miliardo di lire del 1977; dalla guerra (prima) e pace (poi) con la banda di Francis Turatello, divenuto suo testimone di nozze in carcere nel 1979.
E dalle rocambolesche evasioni fondanti l’alea romanzesca intorno al bandito: alcune riuscite a metà (come quando nel 1980 insieme al brigatista Corrado Alunni uscì dall’ingresso principale di San Vittore prendendo agenti in ostaggio e sparando, ma venendo ferito e lasciato presto dai compagni fuori da un ospedale), altre durate poco (come quella nel 1987 dall’oblò del traghetto Genova-Nuoro, finita dopo la spacconata di essere andato a farsi intervistare nella redazione milanese di Radio Popolare da cui uscì rubando a un giornalista la patente), altre ancora subito abortite, come l’ultimo progetto di fuga da Nuoro nel 1995.
Ma il regime di semilibertà gli fu revocato quando nel 2014 fu arrestato, e condannato a 10 mesi, per tentata rapina impropria (da lui negata) di un paio di boxer in un supermercato di Milano. Nel 2020 il diniego della libertà condizionale fu motivato dai giudici valorizzando il mancato “definitivo ripudio del passato stile di vita”, e l’aver invece insistito a “non confrontarsi con la dolorosità del male arrecato”. Negli ultimi due anni, infine, ecco l’altalena di decisioni sul permesso (concesso, revocato, ripristinato) di 12 ore alla settimana in una comunità terapeutica.