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di Eriberto Rosso*

Il Riformista, 17 febbraio 2024

“Andrebbero perciò adottate misure legislative di decarcerizzazione cominciando dai condannati che scontano pene inferiori a un anno”. Il tema della pena, le terribili condizioni delle carceri in Italia, la necessità che la politica agisca subito. Ne parliamo con Giovanni Fiandaca, Professore emerito di Diritto penale, già Garante dei diritti dei detenuti per la Regione Sicilia.

Le condizioni di vita all’interno degli istituti di pena italiani sono devastanti: quindici suicidi al mese ne sono la riprova. Il sovraffollamento ha raggiunto nuovamente i livelli precedenti alla Torregiani ma, ancor di più, ciò che anche recenti episodi hanno mostrato è la mancanza di qualsiasi garanzia per i diritti dei detenuti, dalla salute, alla agibilità, al lavoro.

“La situazione complessiva del nostro sistema penitenziario è drammatica, in verità non da ora. Non pochi nodi problematici, relativi alle condizioni di vita intramurarie peraltro molto disomogenee negli istituti di pena dei diversi contesti territoriali, si trascinano insoluti da decenni.

L’attenzione delle forze politiche è quasi sempre mancata, o comunque è stata gravemente insufficiente. A prescindere dagli schieramenti di centrosinistra o centrodestra, purtroppo. Con l’aggravante che certe forze di orientamento populista hanno, più di recente, strumentalizzato politicamente il carcere come mezzo di vendetta pubblica e luogo di esclusione in cui i detenuti dovrebbero essere lasciati marcire”.

Davvero la società esprime un bisogno punitivo che accetta come risposta solo il carcere? O non è la politica, in un vizioso corto circuito, a sollecitare questa terribile interpretazione del concetto di certezza della pena?

“La questione è complessa. Il sociologo francese Didier Fassin si è spinto sino a definire il punire una passione contemporanea. Anch’io ho l’impressione che oggi sia tornata a diffondersi, in vari strati sociali, una cultura punitivista. Ma ritengo pure che si tratti di un atteggiamento in parte spontaneo e in parte indotto, per cui si assiste appunto a un vizioso corto circuito. Nel senso che quantomeno una parte della politica tende ad alimentare le pulsioni ritorsivo-punitive derivanti dai sentimenti di frustrazione, rabbia e risentimento diffusi nel pubblico specie nei momenti di crisi socioeconomica, sfruttandole a fini di consenso politico con la creazione di ennesimi reati o l’ennesimo aggravio sanzionatorio: un circolo perverso, questo, che incentiva una demagogia punitiva più volte stigmatizzata anche da Papa Francesco”.

Nel Suo recentissimo lavoro (Punizione, Il Mulino 2024), dopo le alte considerazioni sul piano filosofico e giuridico sulla natura e sulla funzione della pena, Lei invoca alcune semplici, immediate risposte per attenuare la drammaticità della condizione carceraria, a partire dalla tutela della salute, anche in termini di risposta al disagio psichiatrico, la assegnazione dei detenuti ad istituti il più possibile vicini ai luoghi di residenza dei familiari, studio e lavoro all’interno del carcere, ripristino del numero delle telefonate in periodo Covid, misure alternative subito...

“In questo recente mio libretto ho cercato di esporre, in una forma divulgativa accessibile anche al grosso pubblico, l’insieme delle ragioni che fanno apparire abbastanza problematico il fenomeno del punire, specie se ci si illude di utilizzare la punizione come rimedio principale per contrastare i grandi o piccoli mali che oggi ci affliggono. In particolare la pena carceraria, così come viene di fatto gestita nelle nostre prigioni, funziona spesso più come un veleno che come un farmaco. Oltre a rieducare poco, e a fungere non di rado - come sappiamo almeno dal secondo Ottocento - da scuola o fabbrica di delinquenza, compromette la salute fisica e psichica, crea disturbi o disagi psicologici (aggravando, nel contempo, eventuali patologie psichiatriche preesistenti), destituisce di senso il trascorrere del tempo giornaliero, provoca sentimenti di apatia, abbandono e disperazione con conseguenti tendenze suicidiarie o autolesive. Scarseggia il lavoro, l’assistenza sanitaria è carente, le risorse materiali e umane destinate ai trattamenti rieducativi sono largamene insufficienti. Il cahier de doléances è noto, si può dire da sempre. Persino l’ex capo del Dap Bernardo Petralia ha confessato, intervenendo di recente al X Congresso di “Nessuno tocchi Caino”, che quando visitava le carceri provava un “senso di colpa”. Ma il vero problema è il carcere in sé, quali che siano le condizioni di vita al suo intervento. Prima di pensare di migliorare la situazione esistente, prima di progettare nuove carceri o di ristrutturare gli istituti più scadenti, occorrerebbe procedere a una drastica riduzione della popolazione detenuta. Oggi stanno in prigione molte più persone di quanto sarebbe strettamente necessario, imputate o condannate per reati non gravi e in ogni caso non socialmente pericolose. Andrebbero perciò adottate misure legislative di decarcerizzazione cominciando dai condannati che scontano pene inferiori a un anno, nel contempo accompagnandone il ritorno in libertà con mezzi di sostegno a carico degli enti locali (ad esempio, case o strutture di reinserimento sociale per i soggetti più poveri ed emarginati). Più in generale, bisognerebbe procedere ad una ulteriore estensione delle sanzioni extra-detentive, insieme ad una depenalizzazione dei reati che non hanno mai avuto o hanno ormai perduto una vera ragion d’essere. Ma questo resta un programma di politica penale da libro dei sogni, se l’attuale governo di destra-centro manterrà il suo approccio repressivo…”

L’opposizione pare intenzionata ad un recupero del lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, una straordinaria esperienza abbandonata per miopia politica da quelle stesse forze che oggi dichiarano di volersi nuovamente impegnare. È questo uno scenario possibile, a fronte di una maggioranza di governo che invece rivendica logiche securitarie e carcerocentriche e che addirittura vorrebbe mettere in discussione la funzione rieducativa della pena?

“L’opposizione ha anch’essa grandi colpe. Le stesse forze di sinistra hanno ospitato al loro interno tendenze giustizialiste, incorrendo altresì nell’errore di delegare alla giustizia penale il compito di affrontare mali sociali che andrebbero curati con interventi di ben altra natura. Per di più mostrano un certo opportunismo contingente, nel senso che si occupano di carcere soprattutto se e quando questo serve a criticare il governo di destra, come nel recente caso della scandalosa condizione detentiva di Ilaria Sais in Ungheria: mi sarebbe piaciuto che lo stesso preoccupato interesse lo avessero mostrato per i 18 suicidi che da inizio anno si sono verificati nelle nostre carceri. Che il versante progressista intenda recuperare il lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale sarebbe una buona notizia, se non si trattasse di un proposito destinato a rimanere confinato nel recinto delle esercitazioni teoriche. È infatti poco realistico proporsi di correggere così l’ideologia repressivo-securitaria del governo Meloni”.

Hanno fatto discutere le scelte per l’Ufficio del Garante, certamente con un segno di discontinuità rispetto al precedente. E pare essersi esaurita la determinazione della magistratura di sorveglianza, che ha avuto la capacità di individuare soluzioni per alleggerire il numero dei detenuti nel periodo Covid...

“Pure io nutro riserve rispetto alla designazione all’Ufficio del Garante nazionale di persone prive di pregressa competenza in materia penitenziaria; ma, prima di esprimere giudizi pregiudizialmente negativi, è opportuno verificare come il nuovo Ufficio di fatto opererà. Quanto alla magistratura di sorveglianza, non sarei sicuro che la sua capacità di proporre soluzioni innovative o migliorative si sia esaurita”.

*Avvocato penalista