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di Donatella Stasio

La Stampa, 26 febbraio 2023

“Mare fuori”, la serie tv sul carcere minorile, ha saputo raccontare i detenuti invisibili a milioni di persone. Esplorare il mondo della marginalità sociale è necessario e coraggioso, crea una breccia nelle coscienze.

Da settimane cerchiamo di saperne di più sui detenuti al 41 bis o all’ergastolo ostativo, duemila persone circa. Poco si parla degli altri, di quei 54 mila “clienti abituali” che entrano ed escono dalle patrie galere, compresi i 385 “ospiti” degli Istituti penali minorili, Ipm, 193 dei quali non hanno ancora 18 anni e 29 neanche 15. Mare fuori, la serie tv appena rilanciata da Rai fiction, ci ha svegliato dal torpore, accendendo i riflettori e i nostri sguardi su quello scorcio di realtà che è il carcere minorile. Qualche millennio fa, un grande intellettuale diceva “So di non sapere” e a questo pensavo mentre divoravo con avidità gli episodi della terza serie.

Dev’esserci un gran bisogno di conoscenza se è vero, come è vero, che milioni di persone, ed io tra loro, si sono chiuse in casa e hanno fatto notte fonda con quelle storie di galera, al plurale, perché di questo si tratta, di storie, anzitutto di figli, nati in luoghi infami e da famiglie maledette, assenti ma anche no. Figli reclusi in un Ipm, dove fuori ci sta il mare, che è tante cose per chi sta dentro: libertà, amicizia, amore, riscatto. Non sono storie di reati, che restano fuori dal carcere, ci hanno insegnato fiumi di inchiostro della Corte costituzionale e ci insegnano i migliori operatori del carcere, non tutti per carità, solo quelli capaci di sopportare il dolore altrui, che poi è anche il loro, le sconfitte e le delusioni in cui non puoi non inciampare se rispetti la dignità della persona, la funzione rieducativa della pena e se hai un’etica professionale.

Il rischio fa parte del gioco che, in questo caso, vale la candela. Il condannato non è il suo reato; il reato resta fuori; in carcere entra la persona e lì comincia un’altra storia, che guarda avanti, al futuro, e che, certo, deve fare i conti anche con la storia passata, spesso ancora presente, per emanciparsi e diventare liberi. Lotta titanica per chi ha poche manciate di anni di vita e per chi ne condivide il percorso.

Mare fuori è tutto questo: non una fiction sul carcere ma molto di più, un racconto del carcere attraverso la sua umanità. Il paradosso socratico sta lì a ricordarci che l’ignoranza, intesa come consapevolezza di non sapere tutto di tutto, è la molla del desiderio di conoscere, su cui crescono le democrazie. Ebbene, l’umanità reclusa, compresa quella che ne subisce “l’effetto ombra”, ci racconta sempre qualcosa di più di quanto già pensiamo di conoscere. Spesso ci spiazza.

Perciò non condivido alcune stroncature social su Mare fuori, provenienti per lo più da chi “il carcere lo conosce”, e quindi guai a rappresentarlo in modo diverso dalla propria idea o esperienza. “Surrealtà ad effetto”, ha scritto qualcuno, perché non si vedono psicologi né insegnanti, tutto è troppo pulito, quando mai ragazze e ragazzi stanno tanto tempo insieme, e manca questo e manca quello, per cui basta, fine della trasmissione. E invece bisogna guardare. E chi ha continuato a farlo - dalla tv, dall’Ipad o dallo smartphone - ha comunque respirato un po’ di carcere e soprattutto del mondo che lo abita, di solito invisibile allo sguardo perché è il mondo della marginalità sociale.

Al netto degli stereotipi, dei luoghi comuni, degli eccessi di enfasi e di retorica che purtroppo abbondano nelle narrazioni galeotte - siano libri, fiction, documentari, inchieste giornalistiche - è necessario, e coraggioso, alzare il sipario sulla quotidianità della detenzione, raccontarla, mostrarla a chi, per le più svariate ragioni, non vuole saperne del mondo recluso, dei diritti negati, dello stillicidio del tempo della pena che ruba il tempo della vita, nega il futuro, trasforma i giovani in vecchi, spesso in cadaveri. Desiderio di vendetta, paura e ignoranza (non in senso socratico) hanno avuto più voce nella cultura e nella politica degli ultimi trent’anni, in Italia e nel mondo, e hanno prodotto - come spiega Stefano Anastasia nel libro “Le pene e il carcere” - castighi senza diritti e umanità, prassi punitive lontanissime dal volto costituzionale della pena, che nella realtà è sofferenza e segregazione. Altrimenti, che pena è?

È a queste persone che bisogna parlare; è questo muro che bisogna bucare affinché il desiderio di conoscere (non il voyeurismo) faccia breccia nelle coscienze. E questo fa Mare fuori.

L’Ipm della fiction di Carmine Elia si ispira al carcere minorile di Nisida. Affacciato sul mare di Napoli, è gestito da operatori illuminati, ospita ragazze e ragazzi per lo più napoletani, che giocano a pallone, impastano pizze, condividono attività musicali e artigiane. “Questa è una comunità in cui esistono regole che tutti devono rispettare”, spiega la direttrice a Sofia, presunta educatrice che ha appena rotto il naso al giovanissimo e ingestibile Micciarella. “Devi chiedergli scusa” le ordina la direttrice, suscitando il suo stupore perché non è questa la logica imperante del carcere che punisce. Costretta, Sofia si piega e chiede scusa, ma la lezione più grande l’avrà da Micciarella: “Non vi preoccupate - le dice - mia madre mi batteva assai più forte”.

Come in una tragedia greca, anche la fiction mette in scena i limiti dell’umano, le passioni e la loro catarsi. Non è un caso, del resto, che la tragedia greca sia spesso portata in scena dai detenuti.

Proprio a Nisida, tempo fa, ebbi l’occasione di assistere a una pièce teatrale scritta e interpretata dai ragazzi reclusi e liberamente ispirata all’Elettra di Sofocle, in particolare alla relazione tra fratelli, in cui si intrecciavano sentimenti contrastanti ed opposti: odio, amore, desiderio di vendetta, bisogno di ascolto. Si intitolava Fioriture-fratelli e il tema di fondo era la “qualità delle relazioni”, il “bisogno di relazioni che nutrano”.

La pièce terminava con un abbraccio tra Elettra e Oreste e quell’abbraccio durò un tempo infinito, tra le lacrime dei protagonisti e la commozione del pubblico. Fu un fuori programma spiazzante, certamente catartico, come gli abbracci di Mare fuori, ognuno dei quali dà voce a un sentimento diverso: l’amicizia, l’amore, la separazione, la paura, la speranza. Sono abbracci che nutrono, e noi ce ne accorgiamo dalle lacrime che ci riempiono gli occhi.

Mare fuori racconta la fame universale di relazioni che nutrano, senza distinzioni tra dentro e fuori. La privazione di questo nutrimento spesso trasfigura volti e corpi in maschere mostruose, di una incosciente spietatezza. Non c’è alcuna indulgenza al buonismo nelle storie di Mare fuori, anzi. E non c’è, non ancora almeno, nemmeno un lieto fine. Però, ogni storia è a modo suo carica di speranza.

L’”appartenenza”, parola chiave nella fiction e nella realtà di queste giovani vite, segna l’unico orizzonte possibile. La famiglia, il clan cui si appartiene è anch’esso una prigione, ma ha regole sperimentate e accettate dai prigionieri. Che non (ri)conoscono - non possono - altre forme di appartenenza, meno che mai ad una comunità di valori, di regole civili condivise. “Tu a chi appartieni?” è la domanda ricorrente che i ragazzi rivolgono alle matricole, perché al di fuori di questo recinto nessuno di loro ha un posto, un’identità, una casa.

E però, una via di fuga esiste ed è proprio nelle relazioni che nutrono. Qualcuno le incrocia per caso, ad altri si presentano quasi a tradimento, c’è chi le costruisce nel quotidiano del carcere, ed è grazie a questo nutrimento che la maschera cade e scopre volti e corpi bellissimi, pur nelle loro vistose imperfezioni, sentimenti generosi e puliti, desiderio di mordere un’altra vita. Quel nutrimento lo chiameranno amore, amicizia, accoglienza. Talvolta riscatto. Forse è un nuovo senso di appartenenza, a se stessi anzitutto. Mentre per noi spettatori - come per gli operatori del carcere - è la forza di un abbraccio, che ci apre un mondo nuovo, dentro e fuori.