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di Federica Olivo

huffingtonpost.it, 5 marzo 2024

Giovanni Fiandaca è professore emerito di diritto penale all’Università di Palermo, tra gli studiosi più attenti alla pena e alle sue conseguenze. Per un lungo periodo è stato Garante dei detenuti della Regione Sicilia. Intervista al giurista, autore del saggio “Punizione” (Il Mulino): “La demagogia punitiva è una grave deriva. In prigione più autori di reato di quanto sarebbe strettamente necessario. La nostra civiltà giuridica rischia di regredire”.

Professore, il suo libro “Punizione” (Il Mulino), in un tempo in cui vengono creati nuovi reati per ogni fenomeno di allarme sociale, o di presunto tale, assume un doppio valore. L’esigenza di punire sembra aver assunto un’urgenza maggiore ai nostri giorni, nonostante i reati gravi continuino a diminuire. Come si spiega questa contraddizione?

Sì, in effetti ci troviamo di fronte a una contraddizione sotto diversi aspetti. Forse l’aspetto più vistoso è questo: mentre tra gli studiosi ed esperti di giustizia penale la punizione, intesa in senso tradizionale, si considera in crisi da alcuni decenni, la pena carceraria è oggi sempre più invocata come una sorta di vendetta pubblica. Ciò specie da forze politiche di orientamento populista che strumentalizzano per scopi di consenso elettorale, canalizzandoli in chiave iper repressiva, sentimenti di rabbia, indignazione, rancore, risentimento, diffusi negli strati più svantaggiati della società. Così il punire si alimenta soprattutto di pulsioni irrazionali a carattere ritorsivo o aggressivo.

La punizione, da un punto di vista giuridico, si identifica con la pena. Con il carcere, spesso. Da garante dei detenuti lei ha avuto modo di vedere da vicino i “puniti”. Che riflessioni ha fatto in quel periodo?

Da garante ho preso atto in maniera ravvicinata del drammatico divario esistente tra il carcere così come viene di fatto per lo più gestito e il modello di carcere prefigurato nella nostra Costituzione. Tra le altre cose, ho pensato che anche come studiosi di diritto penale dovremmo fare sentire di più la nostra voce nell’arena pubblica per contribuire a migliorare la situazione penitenziaria.

Le carceri stanno vivendo mesi drammatici. Sovraffollamento, ma non solo: sono già circa venti i detenuti che si sono tolti la vita in cella. Come si può invertire la rotta? Forse il problema è proprio il modo in cui la pena è pensata...

Il principale problema è che in carcere ci sono molti più autori di reato di quanto sarebbe strettamente necessario e la prigione non solo rieduca poco, in un numero rilevante di casi provoca effetti ulteriormente desocializzanti, anche sotto forma di disagi e disturbi psicologici con conseguente aumento di suicidi e atti autolesivi. Occorre non solo incrementare la disponibilità di educatori e psicologi, sarebbero necessari interventi legislativi per sfoltire in misura consistente la popolazione carceraria.

Nonostante i progressi fatti dalla civiltà, l’istinto, anche un po’ primordiale, di punire il reo senza curarsi del suo reinserimento nella società è ancora vivo nell’opinione pubblica. Una delle prime proposte di legge di questa legislatura puntava addirittura a inserire in Costituzione la funzione punitiva della pena. La civiltà giuridica sta regredendo?

Sì, c’è un rischio di regressione della nostra civiltà giuridica, come dimostra tra l’altro la proposta cui lei allude di modifica della disposizione costituzionale sulla finalità rieducativa della pena. La cultura penalistica che sta dietro una proposta come questa è obsoleta e regressiva perché ripropone un vetero-retribuzionismo incompatibile con i principi e i valori di una democrazia liberale degna di questo nome. Ma il problema è appunto culturale prima che politico. È per questo che in linea teorica è da promuovere un riorientamento culturale di larghi strati della nostra società. La demagogia punitiva è una grave deriva che è stata più volte stigmatizzata, non a caso, anche da Papa Francesco.

Nel suo libro cita Giorgio Del Vecchio e fa molti riferimenti alla funzione riparativa della pena. La giustizia riparativa, quella che fa incontrare vittima e reo, può essere davvero efficace?

La giustizia riparativa pone oggi di fronte alla sfida di riuscire a valorizzarla al meglio in funzione beninteso complementare rispetto alla tradizionale giustizia punitiva, ma non può essere considerata una bacchetta magica per rimediare alle insufficienze e ai limiti di rendimento della giustizia penale classica. Guai, però, se diventasse un alibi a copertura delle persistenti lacune e inadempienze sul versante dei trattamenti rieducativi degli autori di reato. Incombe inoltre il grosso rischio, da scongiurare, che il ricorso alla giustizia riparativa sposti troppo l’attenzione dagli autori alle vittime, mentre è necessario rinvenire un equilibrio tra i rispettivi interessi degli uni e degli altri.

Quali sono le conseguenze del populismo penale lo stiamo già vedendo. Stiamo registrando un boom di minori in carcere: cifre che non si vedevano da decenni, anche a causa del decreto Caivano. Che conseguenze ha nella società una legislazione penale che guarda più alla repressione che non alla prevenzione, soprattutto quando si rivolge ai giovanissimi?

La conseguenza perniciosa è che si fa a meno di intervenire alla fonte sulle cause genetiche dei fenomeni di criminalità e devianza, per di più il carcere, se utilizzato come principale medicina, anche per i soggetti minori è destinato a tramutarsi in veleno che intossica ancora di più piuttosto che curare i giovanissimi che vi vengono rinchiusi. Insomma, il carcere diventa un sicuro moltiplicatore di criminalità futura.