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di Emilio Randon

Corriere del Veneto, 6 dicembre 2023

Gli applausi spezzano il rito collettivo che tra rabbia e dolore vede padri, madri e figli interrogarsi su ciò che siamo diventati “Papà Gino ha fatto diventare il suo dolore una speranza per tutti”. E io padre, chi sono io per somigliare a quel Gino che parla dal pulpito? Cosa direi io al suo posto là sull’altare? E io giovane, quanto sono Giulia e Filippo, quanti di loro conosco e non vedo? Quanti me ne porto dentro? In piazza c’erano anche le ragazze del “non una di meno”, con la fascia rossa al braccio, irrigidite nei loro postulati di genere e, con loro, dentro la chiesa, Elena che l’aveva detto per prima - “Filippo non è un mostro ma figlio sano del patriarcato” -, fuori qualche grido si è alzato ma nessuno lo ha raccolto. La rivolta di genere che lo spiegamento di polizia temeva non c’è stata. C’era la gente invece, adulti e giovani - tanti - persone arrivate con ancora in bocca l’eco delle parole scambiate in famiglia e sentite nei talk show. C’erano quelli che “no, non sono io il colpevole” e coloro che “la follia non si spiega”, c’erano i credenti nella misericordia e quelli che il male si nasconde in fondo ai pozzi delle nostre vite, quelli della responsabilità collettiva e quelli dell’ergastolo individuale.

Per tutti c’era Giulia ad agitare le coscienze. Fatto sta che, dopo due ore, la folla - ottomila? diecimila? - non era più quella che era arrivata, il funerale, da evento pubblico è diventato lavacro, la cerimonia di Stato da rito si è fatta domanda intima sul nostro stato. Si è trasformata in un’immensa seduta di autocoscienza, personale, a volte dolorosa, a tratti inammissibile. Nessuno ne è uscito uguale.

Gino Turetta era in primo piano sui due maxischermi, dignitoso, con l’occhio asciutto, la forza di un celebrante laico e la pietà di un cristiano che non sa pregare ma che alla fine ci prova. E’ sembrato separarsi dal sangue di sua figlia, accantonare il proprio dolore e farsi latore di un discorso pubblico. Chi l’ha ammirato, chi si è sorpreso. Ha citato Gandhi - “la vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia” - si è aperto all’amore. Così che la magnitudo del delitto per un attimo si è fermata, ha trovato quiete e non s’è eretta a colonna infame.

Una coppia di anziani non ci sta, Gino non l’ha ancora sentito, protesta contro il clamore attorno a un lutto, contro “la stampa che cavalca una tragedia privata mentre è il silenzio che dovrebbe regnare”. “Tre giorni fa una ragazza ha subito la stessa sorte di Giulia e non se l’è filata nessuno” fa la signora, “a Filippo Turetta auguro una lunga vita con la foto di Giulia davanti”.

Fa freddo, la gente non si muove, assiepata davanti gli schermi e su fino ai ponticelli che portano al Prato aspetta. Quando arriva il carro funebre forma un solo grande fermo immagine. Michelle e Ludovica, 18 anni, studentesse all’alberti di Abano, arrivate qui perché hanno marinato la scuola: “La preside non incoraggia le assenze, c’è un programma da rispettare, dice”. Filippo Turetta se lo immaginano come “uno che non ha ancora capito cosa ha fatto, uno che la pubblicità ha trasformato in un personaggio, in un detenuto di lusso. E questo non lo aiuta. Io sono solo una spettatrice - precisa Michelle - capire è già difficile, perdonare spetta a Giulia. So però che i maschi non c’entrano in questa faccenda, la colpa è dell’uomo come essere umano, in questo siamo tutti uguali, maschi e femmine”. Lontana la gazzarra che abbiamo visto passare nelle televisioni, sorprendente come non attecchisca. Alessandro e Alessio, 17 anni, assenti ieri all’itis Kennedy, presenti qui in piazza, sono due studenti che vedono e dicono quel che molti pensano: “La stampa se l’è giocata. Per questioni commerciali” commenta Alessandro; “è il loro lavoro” spiega Alessio; “sicuro, ma almeno diffonda roba vera” ribatte Alessandro. Dove sia il vero e il percepito non sanno dire ma sanno che sta nel mondo degli adulti e non serve a loro.

L’applauso alle parole di Gino, “che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme contro la violenza, che la sua morte sia la spinta per cambiare. Addio amore mio”. Sono le 10 e 54, ce ne saranno altri tre. Giuseppe fa il vigile del fuoco, ha 21 anni, ha ascoltato “nessuna parola contro i maschi, mi sta bene, ognuno deve fare i conti con se stesso. I Filippo Turetta sono invisibili. Si è malvagi un attimo dopo, irreprensibili un attimo prima e la vita cambia per tutti”. Ora ci insegnano a riconoscere i Filippo potenziali, sono deboli, narcisi, sono cresciuti senza no. “Beh, se è per questo ne conosco diversi - dice ancora Michelle dell’alberti - apatici, indecifrabili, almeno così sembrano, si nascondono e non sanno chi sono. Noi nemmeno”.

Si alza in piazza il rumore delle chiavi agitate, interminabile. “Per la vita, per la libertà”, grida una ragazza. E poi ancora il silenzio. Fabio, 20 anni, ammira quel padre, “ha parlato con il suo dolore, ha fatto vedere come un dolore privato può diventare discorso pubblico. Non si è scisso, non è stato incongruo e non poteva fare altrimenti, qui, nella chiesa di santa Giustina”.

Prima e dopo. Dopo le parole di Gino, dopo quelle del vescovo, e lo scandalo cristiano del perdono prende la piazza, la fa diversa. “Mi è piaciuto, non so quanto serva essere cristiani per perdonare e accogliere di nuovo Filippo dentro la comunità degli uomini. Io posso augurargli anche il peggio ma so che non risolvo niente”. Giacomo, studente di fisica, ammirato: “La grande forza di Gino, un padre che sembra scisso e invece non lo è. Avrebbe potuto parlare solo di Giulia e della sua perdita, ha parlato anche a noi, ha trovato il modo di insegnare qualcosa a tutti”.