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di Dacia Maraini

Corriere della Sera, 5 marzo 2024

La poetessa Mahvash Sabet è stata dieci anni in carcere per avere criticato la politica dell’intolleranza, con l’accusa di avere complottato contro il Paese. Uscita dal carcere, ha potuto pubblicare le sue poesie, che sono state amate, tradotte, premiate. Mesi fa l’hanno denunciata una seconda volta. Cosa ne è delle donne iraniane di cui non si parla più? Continuano a battagliare per i tre diritti umani di cui tutti dovrebbero godere? Libertà di pensiero, di parola, di movimento? Siamo davvero condannati all’eterno presente dimenticando ogni giorno il passato più recente? Le donne in Iran continuano a protestare, a chiedere parità di diritti, e sono identificate, controllate, denunciate e spesso incarcerate nell’indifferenza generale.

“In questa prigione / si vende il cielo /per comprare cenere. / Ci tagliano le vene / e il nostro sangue colora i tulipani /ci cuciono le labbra / e le foglie sbucano sotto la lingua”.

La poesia continua con grazia e sapienza trasformando le catene in gioielli del pensiero. L’autrice si chiama Mahvash Sabet ed è stata dieci anni in carcere per avere criticato la politica dell’intolleranza, con l’accusa di avere complottato contro il Paese. Uscita dal carcere, ha potuto pubblicare le sue poesie, che sono state amate, tradotte, premiate. Mesi fa l’hanno denunciata una seconda volta con l’accusa di appartenere a una religione diversa, la Bahà’i che crede in un solo Dio per tutta l’umanità.

E oggi l’hanno condannata ad altri 10 anni di carcere con le stesse accuse. Evidentemente la poesia fa paura ai regimi, soprattutto se a scriverle è una donna. Nonostante la fretta, correndo dietro alle notizie come corrono le gazzelle inseguite dai lupi, cerchiamo di stare vicino a queste donne che difendono per loro, ma anche per noi, per tutte le donne del mondo, il diritto alla parola e al pensiero autonomo. Ne hanno bisogno, come noi abbiamo bisogno del loro esempio coraggioso.