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di Elsa Fornero

La Stampa, 3 agosto 2023

L’Italia soffre di problemi strutturali molto seri, riassumibili nella scarsissima crescita del reddito per abitante e dell’occupazione negli ultimi decenni. Per risolverli, servono cure in profondità che il nostro Paese sembra purtroppo trascurare, immerso com’è in un susseguirsi di emergenze. I governi si limitano così a inseguire le urgenze, tamponano il male senza riuscire a risolverlo; un po’ come un medico che si limiti a prescrivere al malato farmaci antinfiammatori senza preoccuparsi delle cause dell’infiammazione. Non si va alla radice dei problemi, non si analizzano i collegamenti tra le varie disfunzioni, si sorvola sulle cause più profonde del declino, si coinvolge poco l’opinione pubblica, portata a confrontarsi con un disastro al giorno e indotta a pensare che il governo possa ovviarvi senza che qualcuno paghi il conto.

Questo percorso è forse comprensibile (ma non giustificabile) per governi che già nascono con una previsione di breve durata; non lo è, invece, per quelli che hanno aspettative di lungo termine, i governi di legislatura nei quali Giorgia Meloni orgogliosamente colloca il suo. Eppure, l’impressione complessiva è che questo governo sia costantemente in affanno e si dimostri complessivamente poco preparato, tenuto assieme da una generica cornice di destra che tende a premiare - nell’ambito di un sentiero di crescita troppo vago rispetto ai bisogni del Paese - le categorie sociali che ritiene più industriose: piccole e medie imprese, lavoratori autonomi, professionisti, considerati, a torto o a ragione, il bacino elettorale da cui attingere voti. In cima alle priorità il governo ne colloca così la liberazione dai lacci e lacciuoli della regolamentazione e della burocrazia; ne accetta la certa resistenza alla competizione di mercato e la preferenza verso nicchie di protezione; ne tollera benignamente una certa propensione a evadere le imposte, considerate una vessazione di stato.

In questa scala di priorità, il “mondo del lavoro” e le sue crescenti difficoltà si trovano nettamente in secondo piano. Questo atteggiamento del governo se era forse giustificabile all’inizio della legislatura, non lo è più oggi, essenzialmente per due ragioni. Da un lato, un’economia che cresce in modo sostenibile ha bisogno di un sostanziale equilibrio tra lavoro e capitale, e quindi di un buon bilanciamento sociale, mentre è sempre più evidente che il lavoro - e gli investimenti che migliorano qualità, remunerazione e, conseguentemente, benessere dei lavoratori - è stato progressivamente sacrificato negli ultimi decenni, con impoverimento qualitativo dell’occupazione, riduzione dei salari reali e aumento della povertà e dell’emarginazione. Il fatto che questo andamento sia molto diffuso nel mondo non lo rende meno preoccupante. Anzi, dovrebbe rappresentare un chiaro monito per chi pensa che basti favorire l’impresa, con sussidi, condoni e altri strumenti sopra menzionati perché si avvii una ripresa duratura.

Ci vogliono invece investimenti nella scuola, nella formazione, nella sanità e in tutti i servizi che rafforzano le competenze e l’occupabilità delle persone e ne favoriscono l’integrazione sociale, con il lavoro concepito non come mera necessità - o, peggio, mortificazione - ma come auto-realizzazione e contributo al miglioramento della società. Questa logica non è solo alla base di una parte importante del Pnrr, che non si limita al finanziamento di investimenti e riforme ma rappresenta soprattutto uno strumento di promozione di una società meno squilibrata, demograficamente, socialmente e territorialmente (il che, tra l’altro, suggerisce estrema prudenza sull’introduzione dell’autonomia differenziale, con il rischio di aumentare i divari e indurre sempre più i giovani a emigrare dal Sud). Dovrebbe anche essere alla base della prossima legge di bilancio, troppo vicina, però, alle prossime elezioni europee per non esserne condizionata. E qui interviene la seconda ragione dell’inaccettabilità di logiche partigiane di breve termine: il livello molto (elevato del nostro debito pubblico. Il fastidio che alcuni ministri mostrano nei confronti dei vincoli di bilancio è indicativo della miopia di chi guarda quasi soltanto alle prossime elezioni e si scorda delle prossime generazioni, peraltro sempre meno numerose e meno disponibili ad accollarsi i costi di politiche di corto raggio. È emblematico, a proposito, che le spese rinviate o accantonate del Pnrr riguardino in modo particolare proprio i più giovani: dagli asili nido alle residenze universitarie e persino le sistemazioni idrogeologiche che, riducendo i rischi ambientali, dovrebbero lasciare in eredità ai giovani un territorio più sicuro.

Spetterà al ministro Giorgetti ricordare che non vi sono risorse sufficienti per accontentare tutte le esigenze (velleità?) delle forze politiche di maggioranza, e anche di opposizione, visto che le sirene elettorali sono presenti anche in questo campo (è significativo il recente richiamo del Fmi alla necessità di contenere la spesa pensionistica). Invece di invocare la troppo semplicistica contrapposizione tra assistenzialismo e crescita, le risorse andranno perciò concentrate sulle fasce più deboli nella doppia logica, sopra ricordata, dell’accompagnamento verso opportunità di inclusione e di crescita personale e collettiva. E ciò non solo per i vincoli che saranno posti dalle nuove regole europee con il nuovo del Patto di Stabilità ma soprattutto perché non possiamo continuare a sacrificare le prospettive dei giovani al benessere, sia pure relativo, delle generazioni meno giovani.