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di Carlo Bonini

La Repubblica, 6 febbraio 2024

A Giuliano Amato è stato vietato l’ingresso a san Vittore per presentare il suo libro. C’è qualcosa di profondamente disturbante nel burocratico tratto di penna con cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha cancellato ieri mattina l’incontro annunciato da tempo che martedì 6 febbraio, nel carcere milanese di san Vittore, avrebbe avuto come protagonisti il presidente emerito della Consulta Giuliano Amato e la giornalista Donatella Stasio per discutere del loro libro “Storie di diritti e di democrazia”.

Perché come in tutti gli atti immotivati che colpiscono l’esercizio di una libertà e di una testimonianza civile - il Dap non è stato in grado per un giorno intero di articolare alcuna sostanziale giustificazione della sua decisione - sono le stimmate della dimensione autoritaria in cui il Paese e le sue burocrazie sono state precipitate dalla destra populista e sovranista al governo. E che una grottesca nota serale del ministro di Giustizia Nordio non riesce certo a dissimulare, farfugliando di “appuntamento cui il ministro spera di partecipare” e dunque di “semplice rinvio dovuto esclusivamente a difficoltà organizzative”. La verità è che nella storia repubblicana non era ancora accaduto che a un uomo delle istituzioni come Giuliano Amato, giurista di 85 anni, già ministro e presidente del Consiglio, protagonista e testimone di mezzo secolo di vita politica del nostro Paese, fosse negata l’agibilità di un carcere (che per altro lo aveva accolto già nell’autunno del 2022) per discutere, di fronte a una platea di detenuti inseriti in un progetto formativo, di Costituzione e diritti. Di proseguire cioè il suo viaggio negli istituti di pena cominciato negli anni della sua presidenza della Corte Costituzionale. E averlo fatto significa dunque aver consapevolmente deciso che è maturo il tempo per un salto di qualità nell’isolamento e nell’aggressione di quel pensiero e di quelle voci libere e dissonanti che si ostinano a disturbare la manovratrice che abita a Palazzo Chigi. A incrinarne la narrazione, a smascherare la natura profondamente illiberale delle politiche che ne accompagnano l’azione di governo e i progetti di riforma costituzionale (il premierato).

A Giuliano Amato non è stata perdonata una lunga intervista concessa il 2 gennaio scorso su questo giornale alla nostra Simonetta Fiori in cui metteva in guardia dai pericoli che oggi minacciano la nostra democrazia. Almeno così come l’abbiamo conosciuta dal dopoguerra in avanti. Giuliano Amato non doveva permettersi di pronunciare parole che conviene oggi ricordare. Queste: “È percepita come un nemico anche la Corte Costituzionale, ossia il più alto organo di garanzia della Carta il cui compito è garantire anche i diritti di carcerati, migranti, omosessuali. Agli occhi degli elettori della destra populista le Corti finiscono per apparire espressione e garanzia di quelle minoranze che turbano il loro ordine e i loro valori. Quindi sono nemici, perché la maggioranza che sta con me è il popolo e gli altri che non la pensano come me sono avversari da combattere. L’abbiamo visto in Ungheria e in Polonia: le prime ad essere messe nella lista nera sono state le Corti europee, poi le Corti nazionali. Perché se queste appaiono come nemiche della collettività, una politica che protegge il popolo e i suoi valori è autorizzata a sottometterle alla volontà del governo”.

Il 4 gennaio, neppure quarantotto ore dopo quell’intervista, Amato era stato messo alla porta della commissione governativa sull’intelligenza artificiale dalla presidente del Consiglio. E, di lì in avanti, consegnato allo squadrismo a mezzo stampa dei tre quotidiani - il Giornale, Libero, la Verità - che Palazzo Chigi utilizza sistematicamente per intimidire oppositori, reprobi, e quel che resta del giornalismo di opposizione in questo Paese. In un formidabile capovolgimento della funzione che ogni democrazia affida alla libera stampa. Che è quella di controllore del potere e non di suo pitbull.

Naturalmente, non è il professor Giuliano Amato il problema del governo. Ma bastonarlo risponde alla logica del “colpirne uno per educarne cento”. Significa mostrare tanto alla platea di giuristi, magistrati, intellettuali di questo Paese, quanto al ventre molle delle sue burocrazie e apparati, che nella logica tribale dell’amico-nemico non si fanno prigionieri. E che non esiste alternativa al nuovo conformismo sovranista del tempo. Complice anche la narcolessia del dibattito pubblico con cui, da quando la destra ha conquistato il governo, viene annegata ogni progressiva lacerazione del tessuto democratico e della sua grammatica. Soprattutto quando si parla di diritti o di carceri. Come dimostra anche la vicenda di Ilaria Salis. Oggetto delle preoccupazioni della Commissione europea e di un dibattito in seduta plenaria del Parlamento europeo, ma abbandonata ieri al suo destino da una sbrigativa battuta della premier e dal “non possumus” dei ministri Tajani e Nordio.