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di Glauco Giostra

Il Dubbio, 16 aprile 2024

Bisogna rimuovere dal testo le criticità tecniche che rischiano di pregiudicarne l’efficacia. Che la situazione carceraria sia drammatica, non è più seriamente contestabile. Che sia responsabilità soltanto dell’attuale governo sarebbe affermazione ingenerosa. Che la recente produzione di reati à la carte sia riuscita, però, nel non facile risultato di peggiorare una situazione già al collasso, è evidente. Che servirebbe una profonda palingenesi della risposta penale al reato in grado di fare dell’esecuzione carceraria l’extrema ratio e l’occasione per offrire al condannato una vita intramuraria ritmata non già da una immota clessidra senza sabbia, ma da impegnativi percorsi di formazione e di prestazioni a favore della vittima e della società è tanto ovvio, quanto ignorato.

Che in mancanza di una tale riforma continueremo periodicamente a trovarci nella identica situazione attuale, è sicuro: si scaricano con irresponsabile sollievo nel pozzo della pena detentiva tutte le acque reflue (o ritenute tali) della convivenza civile; poi, quando il tetro e ignorato pozzo si ritiene “troppo pieno”, si cerca di abbassarne il livello con rimedi improvvisati e non risolutivi. Sino al 1990 si è provveduto con lo “sfioro” dell’amnistia e dell’indulto: si noti che il “troppo pieno”, all’epoca, era rappresentato da una popolazione penitenziaria che era meno della metà dell’attuale! Da allora, per “vuotare” il carcere - come si dice nel greve slang politico-mediatico si è fatto ricorso a “secchi” sempre più grandi, dilatando gli strumenti ordinari.

Nel 2010 si introdusse, sbandierandone la natura eccezionale e transitoria, l’esecuzione presso il domicilio per pene o residui di pena sino a 12 mesi. Dopo appena un anno non era più misura transitoria e veniva innalzato a 18 mesi il periodo di pena residuo eseguibile presso il domicilio (d.- l 2011/211, Intervento urgente per il contrasto della tensione detentiva). Tempo due anni e intervenne la umiliante condanna di Strasburgo (sent, Torreggiani) per sovraffollamento. E la storia continua.

In questa situazione di “cronica emergenza”, tra i rimedi tampone, è in discussione la proposta dell’on. Giachetti in materia di liberazione anticipata. Nel disarmante panorama attuale sembra questa la risposta più convincente, anche se ovviamente non risolutiva, perché riesce a coniugare l’esigenza di de- affollamento con quella di riservare alla pena la funzione che la Costituzione le assegna. A regime si propone di innalzare la riduzione di pena per ogni semestre in cui il condannato ha dato prova di partecipazione all’opera rieducativa dagli attuali 45 a 60 giorni. Come misura eccezionale e transitoria si prevede, invece, un innalzamento a 75 giorni con effetto retroattivo a partire dal 2016 (cioè da quando la precedente disposizione eccezionale aveva cessato di operare) e per i prossimi due anni, naturalmente sempre ove sia stata riconosciuta o si accerti la positiva partecipazione all’opera rieducativa.

Proprio perché si considera questa tra le poche proposte serie in circolazione sarebbe bene rimuoverne tempestivamente le criticità sotto il profilo tecnico in grado di pregiudicarne la funzionalità. La più vistosa riguarda l’improvvido affidamento della competenza a decidere sulle riduzioni di pena al direttore dell’istituto penitenziario: scelta costituzionalmente indifendibile, in quanto deroga alla riserva di giurisdizione in materia di libertà personale. Né vale osservare, come si afferma nella relazione accompagnatoria, che si tratta di una decisione di carattere automatico. È vero che quando il “condannato sia incorso in una sanzione disciplinare che possa pregiudicare la partecipazione all’opera di rieducazione”, il direttore dell’istituto deve passare la competenza al magistrato di sorveglianza. Ma si tratta di una previsione doppiamente infelice: da un lato, perché tenta di occultare una delicata discrezionalità, in quanto è pur sempre il direttore a stabilire quando una infrazione disciplinare può compromettere il percorso risocializzativo; dall’altro, perché trasmette l’idea che la riduzione di pena spetti sempre a chi risulta disciplinarmente incensurato. In realtà, come una infrazione disciplinare non può ritenersi di per sé ostativa al riconoscimento della riduzione di pena, così l’irreprensibilità disciplinare non può di per sé attestare la partecipazione all’opera rieducativa (non risulta che Messina Denaro abbia mai commesso infrazioni disciplinari).

Beninteso, si comprende la ragione di fondo che ha indotto ad attribuire la competenza al direttore: sgravare la magistratura di sorveglianza, già in affannoso arretrato, di un altro, gravoso compito. Non si può tuttavia cercare di porre rimedio ad una situazione costituzionalmente e convenzionalmente inaccettabile come il sovraffollamento carcerario, ricorrendo ad uno strumento incostituzionale.

Piuttosto, si potrebbero almeno in parte recuperare le fondate esigenze di semplificazione procedurale, senza deragliamenti costituzionali, quando si tratta di maggiorare la detrazione di pena rispetto a riduzioni già concesse dal 2016 ad oggi. La nuova norma ne prevede l’incremento di ulteriori trenta giorni a semestre, “a condizione che successivamente alla originaria detrazione il condannato abbia continuato a dare prova di partecipazione all’opera di rieducazione”. Ebbene, se questa condizione viene eliminata, ben potendosi sostenere che sui benefici già concessi sia calato una sorta di “giudicato rieducativo”, si potrebbe affidare al direttore o al pubblico ministero l’applicazione - questa sì, automatica - dell’incremento che ha a monte un giudizio di meritevolezza effettuato a suo tempo dalla magistratura di sorveglianza. Di certo, bisognerebbe fare ogni sforzo per rendere questo strumento legittimo ed efficiente, almeno per indietreggiare qualche metro dal baratro.