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di Aldo Cazzullo

Corriere della Sera, 2 luglio 2023

I blindati nelle vie di Parigi segnano una frattura ormai evidente, in Francia. E il presidente-padre della Nazione ora è il bersaglio delle proteste. I blindati nelle vie di Parigi per fermare la rivolta delle banlieues e l’ex allenatore del Nizza e del Psg arrestato per un’espressione razzista sono ovviamente due notizie di dimensioni diverse. Ma il fatto che siano arrivate nello stesso giorno restituiscono l’immagine di una Francia costretta a usare mezzi sproporzionati per far rispettare lo Stato di diritto a un Paese riottoso, ribelle, incattivito.

Perché c’è una parte di Francia convinta che neri e arabi siano sottomessi e sfruttati dai bianchi. E c’è una parte di Francia - magari meno combattiva ma certo più ampia - che non scende in piazza ma è convinta con Christophe Galtier che ci siano “troppi neri e troppi arabi”. In mezzo c’è Emmanuel Macron. C’è il campione di una Francia liberale, centrista, europeista, moderna, che ha visto in lui l’uomo del futuro, ma forse ha trovato solo un modo per prendere tempo, per resistere all’avanzata del populismo antisistema, a quella rivolta contro l’establishment, le élite, lo Stato che è il vero segno del nostro tempo. Per sei anni Macron è sembrato l’argine contro tutto questo. Contro il razzismo dei bianchi e il contro-razzismo dei figli degli immigrati. Contro la destra radicale di Marine Le Pen e la sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon. Ma ora quell’argine rischia di crollare.

Libération, quotidiano della Gauche critico con il presidente ma che l’ha sempre appoggiato al ballottaggio - “Fate quel che volete ma votate Macron” fu il titolo della vigilia elettorale del 2017 - parla di scene da guerra civile. Ma il Figaro, quotidiano di destra che a sua volta ha appoggiato Macron, affida al suo editorialista Mathieu Bock-Côté un’analisi se possibile ancora più preoccupante: “Vediamo scene di popolazioni che non credono di appartenere allo stesso popolo”.

I figli delle banlieues gridano di essere discriminati. Non si sentono francesi perché sostengono di non essere trattati come tali. I loro padri erano disposti a pagare il prezzo del lavoro duro e malpagato, perché fuggivano dalle ex colonie dell’impero, spesso dall’Algeria dove gli “Harkis”, i lealisti, venivano trattati in patria da traditori e collaborazionisti dei francesi, e spesso venivano male accolti nella Francia che avevano servito. Ma i figli hanno avuto l’impressione di essere considerati cittadini di serie B, per il loro aspetto, per il loro accento, anche solo per l’indirizzo e il dipartimento scritti sulla carta di identità.

Dall’altra parte, c’è una Francia che più o meno sommessamente dà loro ragione, nel senso che non li considera veri francesi, ma approfittatori di uno Stato sociale ancora generoso, da cui prendono senza dare. È una frattura ormai evidente. E magari fosse tutta colpa di TikTok, come è parso dire Macron in un’uscita che non sarà certo ricordata tra le sue migliori. Il presidente paga anche colpe non sue. Viene tradito da un sistema che era stato pensato per garantire la stabilità, e finisce per scaricare sulle piazze la tensione che non trova sblocco nella politica e nel Palazzo.

Il presidente della Repubblica era stato pensato come una sorta di padre della Nazione. Ne è diventato il bersaglio preferito. Charles de Gaulle aveva ritagliato la figura del capo dello Stato su se stesso. Designato e acclamato, più che eletto. Nell’unica volta in cui si sottopose all’elezione diretta, visse come un affronto personale essere portato in ballottaggio (da François Mitterrand).

Per lui il presidente era quasi un organo super partes, l’incarnazione stessa della volontà del popolo. Certo de Gaulle non era uno sprovveduto, sapeva che la Francia non avanza per riforme ma per rivoluzioni, non per gradi ma per strappi. E aveva pensato a un “fusibile”, a un agnello sacrificale, a una figura intermedia tra sé e il Parlamento di cui poter fare a meno, su cui scaricare rabbie e tensioni: il primo ministro. Il primo ministro governa; il presidente regna. E, quando qualcosa non funziona, il presidente cambia il primo ministro. Con de Gaulle, Giscard, Mitterrand, Chirac andava così.

Poi il popolo ha cominciato a mirare direttamente al bersaglio grosso. Dopo cinque anni ha mandato a casa Sarkozy, che adesso rischia di finire in galera. Hollande non si è neppure ricandidato, e il suo partito socialista è quasi sparito. Macron invece è stato rieletto, per lo stesso motivo per cui aveva vinto la prima volta: fare da argine a Marine Le Pen. Così aveva avuto l’appoggio della destra repubblicana e della sinistra riformista, delle grandi famiglie che controllano l’economia e degli intellettuali preoccupati dall’onda populista.

L’anno scorso però non è riuscito a ottenere la maggioranza parlamentare. Governa per decreti, per forzature, con cui ha imposto anche la contestatissima riforma delle pensioni. Ma un uomo che prende meno di un quarto dei voti al primo turno, e che non ha un partito alle spalle, non può pensare di governare la Francia da solo.

Perché la torsione con cui il sistema gli consegna le chiavi dell’Eliseo diventa una formidabile forza repressa che attende solo un pretesto per essere scatenata. L’altra volta fu l’aumento del prezzo del diesel; e fu l’insurrezione della provincia e delle campagne, dei Gilet gialli. Stavolta è stato un poliziotto che ha sparato a un diciassettenne (seppellito ieri a Nanterre); ed è la rivolta delle periferie urbane. Che ha costretto Macron all’umiliazione di annullare il viaggio in Germania, dopo aver vagheggiato di sostituire il cancelliere nella guida politica e morale dell’Europa.

La Francia è di cattivo umore da molti decenni. È ancora un Paese ricco, è ancora uno Stato che funziona. La curva demografica è decisamente migliore di quella tedesca. Le sue aziende hanno fatto shopping in Italia. Eppure è un Paese che per alcuni sta soffrendo molto, per altri non ha più voglia di soffrire. E il giovane leader che si sognava primo presidente eletto degli Stati Uniti d’Europa rischia di dover lasciare il trono di casa a uno di quei populisti che era stato scelto per sconfiggere.