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di Massimo Carugno

Il Riformista, 30 aprile 2022

Quando se n’è sentito parlare per la prima volta siamo sobbalzati sulla sedia scossi da un sussulto di felicità. Finalmente, abbiamo pensato, si metterà mano a uno dei servizi più importanti del paese, illusi che per riforma della giustizia si intendesse l’ammodernamento del vasto mare delle funzioni con le quali lo Stato dispensa ai cittadini la risoluzione delle controversie, mediante quel mistico dattiloscritto chiamato sentenza.

Poi abbiamo letto la proposta Cartabia, ci siamo stropicciati gli occhi e siamo stati richiamati alla realtà dalla brutalità del risveglio. Mai come in questo caso il nome del Ministro si mostra onomatopeico rispetto al suo progetto: una montagna di “carta” vuoto di ogni contenuto innovativo.

Perché in effetti non si tratta di una riforma della giustizia ma di una riforma della magistratura, anzi, una riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, anzi, (e qui sprofondiamo nell’abisso) una riforma del sistema di scelta dei componenti dell’organo di autogoverno dei giudici.

La cosa non dovrebbe sorprendere perché non è da oggi che le toghe con l’ermellino quando si parla di “giustizia” intendono solo quella parte del sistema che riguarda loro, la loro attività e i loro interessi.

Non è una novità che nelle teste ornate del tocco non c’è grande cura di chi sta dall’altra parte della barricata. E fa niente che c’è una utenza che attende un sevizio e un altro ordine professionale (quello degli avvocati) che pensa, o si illude, di poter collaborare per rendere dei buoni risultati al paese. Ma questa riforma proveniva dalla politica e da essa era stata ispirata e incoraggiata ed allora non era innaturale che ci si aspettasse qualcosa di diverso, capace di risolvere i problemi della “giustizia” che sono ben diversi dai problemi dei giudici.

Eppure girando un po’ a naso qualcosa da fare non è difficile da individuare. Per il settore penale ci sarebbe, per esempio, da dare una sfrondata all’interminabile catalogo dei reati sparsi tra il codice e le legislazioni speciali. Molti sono inutili perché sanzionano comportamenti che sarebbero più efficacemente repressi in sede amministrativa. Per esempio quelli chiamati “formali”, derivanti cioè dalla semplice condotta e senza che vi sia un evento lesivo a danno di una persona o della collettività (per l’inosservanza di norme di sicurezza o amministrative).

Uno sfoltimento dei reati porterebbe ad una riduzione dei fascicoli e quindi a uno snellimento dei processi e dei tempi. E poi magari si potrebbe pure pensare di tornare indietro e cancellare quell’obbrobrio delle recenti modifiche della prescrizione fatte, in nome della celerità dei processi, in ossequio ai principi più giacobini del giustizialismo populista grillino.

Quanto al processo una limata vigorosa ai casi di custodia cautelare, per ricordarci che una persona è colpevole solo dopo una sentenza definitiva e che le condanne dell’opinione pubblica nei processi mediatici (che in questo paese siamo soliti fare molto prima) sono forche dalle quali non si esce mai vivo, non sarebbe sbagliata.

E poi c’è il rapporto pubblico ministero - difesa. Non si tratta di separazione di funzioni o di carriere. Non basteranno a far vedere al giudice, i p.m. e le difese, con gli stessi occhi. I primi saranno sempre colleghi e le seconde un probabile intralcio al procedere della giustizia.

Magari si potrebbe pensare alla figura della “Pubblica Accusa” all’americana. Avvocati, estranei all’ordinamento dei magistrati, che periodicamente, perché o eletti o nominati dalle istituzioni, vanno a svolgere il ruolo degli inquirenti.

Magari, ma quando mai. E anche il settore della giustizia civile attende le sue riforme. Intasato di carte, ricorsi, citazioni, memorie, comparse, istanze e quant’altro se svoltasse verso una sostanziale ed assorbente oralità oltre ad una sostanziale semplificazione dei riti il processo civile andrebbe certamente incontro ad una riduzione dei tempi. Ricetta che non troverebbe una appagante degustazione senza il condimento della salsa della riduzione dei riti speciali o specialistici unificati in un’unica carta processuale. Tanto se quello ordinario si riesce a renderlo rapido quelli speciali e specialistici non avrebbero ragion di esistere.

Ma con desolata rassegnazione sappiamo che tali linee di riforma non si faranno mai. Non perché non sono funzionali all’interesse della collettività ma perché non interessano ai giudici e a quei loro colleghi che affollano il Ministero e che ne costituiscono un agguerrito corpo tecnico la cui volontà spesso si sostituisce, o annulla quella politica.

E allora vanno avanti le riforme che non servono a niente, le inutili riscritture del codice, il continuo calcolo e ricalcolo dei termini processuali, illudendo di voler abbreviare i tempi dei processi nell’interesse dei cittadini ma perseguendo il sottile, e neanche tanto nascosto, unico scopo di facilitare e semplificare il lavoro dei giudici, facendone tanti specialisti che con il gioco del “copia/incolla” possono sfornare sentenze a palate, come la catena di montaggio.

È per questo che si sopprimono i Tribunali piccoli, chiudendo tutti e due gli occhi sul fatto che quelli chiusi, o in corso di chiusura, sono molto più efficienti, sotto tutti i punti di vista, dei grandi santuari metropolitani dove i giudici sono così tanti che ognuno si può specializzare in una branchetta del diritto e fare solo quello per tutta la vita.

Mentre di quei cambiamenti che sarebbero necessari non si parla minimamente. Ma oramai non aspetta solo il cittadino, che nella giustizia ha sempre meno fiducia. C’è anche l’Europa alla finestra, in attesa di sapere se la montagna di euro da inviarci (anche per la giustizia), è meritata o meno. E sarà davvero da ridere quando gli racconteremo che la grande riforma della giustizia saranno le vuote carte della Cartabia.