di Alberto Cianfarini*
Il Dubbio, 21 febbraio 2023
Forse non basta cambiare qualche norma. Una delle affermazioni più incontestate che riguardano il nostro processo (civile, penale e per certi versi anche i tre processi delle giurisdizioni speciali) attiene alla durata esagerata di esso; infatti nelle statistiche europee l’Italia appare sempre quale fanalino di coda nella lista dei Paesi, nel significativo dato nei giorni complessivi che intercorrono dalla iscrizione a ruolo al provvedimento alla sentenza definitiva passata in giudicato.
Tutte le forze politiche indicano, da sempre, la strada della “Riforma della Giustizia”: con tale termine, invero troppo ampio, ognuno intende cosa in cuor suo desidera. Chi spera nell’accorciamento dei tempi della Giustizia, chi auspica e confida in una magistratura meno attenta ad adempiere al mandato attribuitole nell’ottica teleologicamente orientata all’art. 3 della Costituzione. L’Italia - come molti altri Paesi del mondo - è sempre stata alle prese con la Riforma della Giustizia, sin dalla costituzione in Regno d’Italia, quando appunto si creò il tema dell’unificazione del Paese e dei vari sistemi giuridici che la componevano.
Gli interventi normativi volti a “Riformare” la giustizia, nel corso dell’ultimo secolo, sono stati innumerevoli. Da ultimo la recente Riforma posta dal Decreto Legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 si pone l’ambizioso obiettivo di accelerare il processo. Occorre chiedersi: quali sono le caratteristiche di questo ultimo intervento normativo?
Riuscirà la Riforma nell’intento propostosi? Circa la prima domanda non può non osservarsi che la Riforma è improntata ad alcune direttrici forti e storicamente sempre applicate alle precedenti - numerose, quanto inefficaci - Riforme della giustizia: uno spiccato giuspositivismo formale. L’idea di fondo del legislatore è che: cambiando gli Istituti (rectius il nome di essi); spostando qualche comma e qualche numerazione di articolo, possibilmente in latino; qualche lieve ritocco delle competenze (da tribunale collegiale a monocratico e valore per il giudice di pace); qualche simpatica concessione sui tempi di deposito (art. 281 sexies c. p. c.) ecc. ecc., possa migliorarsi il destino della nostra fragile Giustizia. Gli esempi potrebbero continuare (annoiando forse il lettore) ma il tema si sostanzia in un interrogativo semplice: basta cambiare qualche norma per incrementare la produttività? Tutto l’impianto della novella è caratterizzato dal presupposto che dal semplice cambiamento di una norma possa causalmente derivarne un efficientamento del sistema dal quale, comunque, “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” (art. 51).
Ci si domanda: l’arretrato patologico e i lunghi tempi di attesa nel processo erano solo frutto della mancanza di queste poche indicazioni normative? Con un giudizio controfattuale potremmo dire che il legislatore ritiene che ora, con queste norme, nessun problema avrà l’Italia a porsi al pari delle altre grandi democrazie europee in ordine ai tempi del processo. Chi scrive, facendo tesoro dello studio dei precedenti provvedimenti legislativi e, soprattutto, della loro complessiva incisività nel sistema, prevede che la Riforma - tra qualche anno - sarà dimenticata e sarà additata come l’ennesimo infruttuoso tentativo di accelerare il processo.
Non è forse il momento di considerare un altro possibile modo di scrivere leggi di Riforma della Giustizia? Una Riforma che miri all’accelerazione del momento decisionale dovrebbe partire dalla centralità dell’uomo decisore. Dovrebbe dapprima chiedersi, un saggio legislatore, cosa serva realmente al giudice per accelerare i suoi processi produttivi.
Occorrerebbe considerare che i giudici non sono macchine e che non tutti amano passare il sabato e la domenica chinati sulla scrivania a studiare gli atti, per poi iniziare gli altri giorni della settimana in udienza fino alla sera tardi. Quali incentivi, almeno morali, occorrerebbe escogitare? Ogni ufficio giudiziario ha una sorta di numero, quale sorta di budget di sentenze da raggiungere per singolo magistrato; vi sono giudici che arrancano altri che raggiungono quegli standard nella metà del tempo. Non vi è rischio che i più meritevoli siano disincentivati? Qual è il premio che l’Ordinamento riconosce ai più produttivi? Una edilizia giudiziaria a volte indecorosa incide sui tempi di produzione del giudice? La donna magistrato in maternità fruisce di adeguati benefit, pari alle altre categorie del settore pubblico? Il dirigente dell’Ufficio dà sempre l’esempio ai propri giudici lavorando e producendo di più di essi, aiutando ed indirizzando i colleghi che sono in difficoltà? Il dirigente è sempre scelto proprio per tali indispensabili caratteristiche?
Mille sono le intuibili criticità che affliggono l’uomo decisore. Il legislatore potrà scrivere ogni Riforma più ardita e complessa, meravigliosamente improntata a fornire al giudice norme perfette ma, in ultima analisi, è sempre l’uomo giudice che deve studiare, decidere e faticosamente motivare e, sommessamente, forse, è il momento di chiedergli cosa c’è che non va.
*Magistrato ordinario